In occasione del 25 novembre, “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, ripubblichiamo volentieri un articolo di Lea Melandri apparso pochi giorni fa sulla 27esima Ora del Corriere della Sera. L’articolo approfondisce il tema della violenza, superando i ruoli spettacolarizzati di donne vittime / uomini aggressori e argomentando come le radici della violenza affondino invece nella “quotidianità” e nella “normalità” del rapporto tra i sessi.
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La Giornata contro la violenza sulle donne: solo marketing?
La Giornata del 25 novembre, che nelle intenzioni dell’ONU avrebbe dovuto spingere i governi, le ong, le organizzazioni internazionali, a “sensibilizzare l’opinione pubblica” sul tragico perdurare della violenza contro le donne, sta degenerando al punto da essere ormai solo un’ “operazione di marketing”?
Le critiche alla quantità, per certi versi imprevista e stupefacente, di iniziative, eventi, spettacoli, manifestazioni, appelli, che si stanno preparando, non mancano ma restano inevitabilmente sotto tono anche quando colgono nel segno.
In un articolo del 20 novembre sul Fatto Quotidiano – firmato da “Eretica”- si legge:
«Novembre è un bel mese, dopotutto. Si festeggia “la violenza sulle donne”. Si contano i cadaveri di donne uccise. Il colore rosso diventa solo vittimizzazione invece di forza e ribellione. Nelle fiaccolate dedicate al martirio vedi agitare ceri e forconi in egual misura. Alcune aziende useranno la parola femminicidio come brand per rilevare introiti. A scuola ragazzi e ragazze impareranno che un manifesto con un corpo nudo porta inesorabilmente alla violenza (…). In televisione racconteranno che gli uomini hanno un lato oscuro. Le donne che sono state uccise, però, un pochino, se la sono voluta (…) conta la repressione, e il male, invece che in una cultura, sta nel maschio in quanto tale (…) parlando di adolescenti si sconsigliano trucco e tatuaggi. Pare che se ti trucchi e ti tatui poi, immediatamente, passi alla prostituzione minorile (…) lo scenario è intramezzato da un avviso pericolo baby squillo che comunica un altro messaggio, relativamente originale: le ragazzine, in fondo, sono tutte puttane; la colpa è di internet o delle femministe».
In una lettera alla Libera Università delle Donne, Alessandra Ghimenti, autrice di interessanti video sull’immaginario dei “generi” nei bambini delle elementari, dichiara il suo dissenso dall’invito 25 novembre – Sciopero delle donne :
«Sciopero da chi? Chi sono i datori di lavoro verso cui manifestiamo? (…) Se il lavoro in questione è quello di cura, bè. Sono assolutamente persuasa che il lavoro di cura non spetti (d’elezione) alle donne. Se è altro, non so immaginare cosa si intenda con lavoro. L’amore? L’accoglienza? La storia sessuale? Non capisco. Non ho mai vissuto la vita di coppia come un compito che spettava a me (…) credo che il posizionamento vittima donna/carnefice uomo non ci aiuti ad uscire dalla mentalità che nutre la violenza; e invece mi piacerebbe vedere, sentire, sperimentare e lavorare a qualcosa di nuovo che cambi veramente la cultura e la visione.
Concludendo, la violenza sulle donne è un tema ormai di moda, abusato al punto di diventare strumento di marketing (vedi campagna Coconuda con la Tatangelo), quando non direttamente prodotto (le tante iniziative dalle origini fumose e i bei discorsi politici); quindi ho cominciato a diffidare dall’aderire alle campagne contro la violenza».
Non posso negare di condividere i dubbi di Alessandra per quanto riguarda la scelta dello “sciopero”: una pratica sindacale che presuppone una controparte, una trattativa, e perciò del tutto inadeguata se si vuole affrontare un tema complesso e sfuggente alla logica della “rivendicazione”, quale è il sessismo in tutte le sue forme, invisibili o manifeste: dal sogno d’amore come fusione intima con l’altro, dalla falsa reciprocità dei ruoli complementari del maschio e della femmina, ai maltrattamenti; dalla misoginia diffusa nella cultura alta e nel senso comune agli stupri e agli omicidi.
È stato sicuramente importante riconoscere che la cura, considerata per secoli compito “naturale” della donna, sacrificio di sé per il bene dell’altro, dono d’amore, comporta in realtà una mole enorme di lavoro non riconosciuto come tale, e quindi non remunerato. Ma dire questo significa anche prendere coscienza che parole come “sfruttamento”, “colonizzazione”, “dominio”, “violenza”, intrecciate come sono alle relazioni più intime, non possono essere tradotte semplicemente in una lotta frontale “contro gli uomini che odiano le donne”.
È evidente che il 25 novembre è diventato una specie di catalizzatore di frustrazioni, rabbia, cambiamenti -pazientemente attesi e preparati per anni – di una cultura che resta ottusamente dominata dal privilegio, ma anche dalla falsa “neutralità” e dalla resistenza maschile a riportare su di sé, e sulla storia che abbiamo ereditato, gli interrogativi aperti dal pensiero e dalle pratiche politiche del movimento delle donne. Il processo di liberazione dal destino che altri ha confezionato per loro e che inconsapevolmente ha dato forma anche al loro immaginario e ai loro desideri, oltre che alle loro strategie di sopravvivenza, è solo agli inizi. Quello che si vede all’orizzonte è, da un lato, un rancore maschile crescente, come risposta a un vissuto di fragilità, e, dall’altro, una paternalistica offerta di tutela alle donne vittime contro i rappresentanti più violenti del proprio sesso.
Come interpretare altrimenti l’appello dei “giocatori di Rugby” contro il femminicidio, scritto sulle loro magliette a Ivrea: «i veri uomini rispettano le donne e usano le mani per accoglierle e proteggerle»?
È vero, tuttavia, che non tutto ciò che oggi si muove sul terreno della critica al sessismo può essere liquidato come una poltiglia di eventi dettati unicamente dalla società dello spettacolo e del mercato. L’idea che la violenza nelle sue forme più selvagge non può essere isolata dalla cultura da cui consapevolmente o meno ha origine, che non bastano leggi, diritti, rivendicazioni di uguaglianza, a prevenirla, che parlare solo di vittime e aggressori finisce per far passare sotto silenzio il rapporto di potere tra i sessi nella sua “normalità”, ha aperto una breccia che nessuna ideologia patriarcale potrà richiudere. Allo stesso modo, per quanto sia forte la tentazione di rispondere col moralismo e con la repressione all’uso consumistico, voyeuristico, prostituzionale, che i media, la pubblicità, il mercato – e le donne stesse – fanno dell’immagine femminile, non si può non riconoscere il contributo di svelamento che viene dalle ricerche, dagli studi, dalle analisi che hanno per oggetto la rappresentazione tradizionale dei “generi”, nella sua stereotipia, ma anche nell’ambiguità del suo radicamento nell’immaginario di uomini e donne.
Per creare una cordata solidale di uomini “buoni”, contro i residui di “barbarie” di alcuni loro simili, non sono necessari interessi di mercato o politiche repressive: una volta che la violenza è uscita dall’ombra delle case, chi può sostenere pubblicamente che sta dalla parte degli aggressori?
Il coro delle voci e dei soggetti – singoli cittadini o istituzioni – che si proclamano “contro” è assicurato. Chiediamoci invece quanta strada in salita c’è ancora da fare perché il rapporto uomo-donna esca dal privato e prenda la rilevanza culturale e politica che gli spetta.