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“Per salvare le foreste via l’olio di palma dai serbatoi”

Creato il 31 maggio 2021 da Francesco Sellari @FraSellari

Un libro denuncia le contraddizioni dell’uso energetico dell’olio di palma: le emissioni di CO2 aumentano

“Per salvare foreste l’olio palma serbatoi”

Articolo originariamente pubblicato su Huffington Post

L’olio di palma sembra scomparso dai radar del dibattito mediatico. Fino a qualche anno fa è stato oggetto di campagne e mobilitazioni molto seguite. E i risultati non sono mancati, come dimostra la diffusione dei prodotti alimentari “palm oil free”. Ma mentre ci concentravamo su biscotti e merendine, abbiamo perso di vista il vero business in espansione. “Oggi in Europa bruciamo 20 volte più olio di palma di quello che la Ferrero mette in tutti i suoi dolci che distribuisce nel mondo”, dice Andrea Poggio, di Legambiente.

Poggio ha curato l’ebook Scegli l’olio giusto. Come togliere l’olio di palma dal serbatoio e non solo. Un agile libretto ricco di dati e riferimenti autorevoli, ma anche la storia di una battaglia che vede coinvolti associazioni, militanti e giornalisti sparsi in tutto il mondo e in particolare nel sud est asiatico. “È la globalizzazione buona, quella che consente di costruire una battaglia ambientalista transnazionale”.

L’olio di palma sottratto alla produzione alimentare è stato dirottato, in quantitativi molto maggiori, verso la produzione di carburanti e di energia elettrica. Tra il 1980 e il 2010 la domanda internazionale è passata da 4,5 a 45 milioni di tonnellate. Una crescita che negli anni Dieci ha subito un’accelerazione, raggiungendo nel 2019, 72,2 milioni di tonnellate. Tra il 2015 e il 2018, i biocarburanti hanno assorbito il 90% dell’aumento globale della produzione di olio vegetale. L’Europa importa annualmente 7,5 milioni di tonnellate di olio di palma, due terzi dei quali vengono bruciati per produrre energia. Nel 2019, 521 mila tonnellate di olio di palma sono finite nei serbatoi di auto e camion italiani. “È un vero e proprio greenwashing “, accusa Poggio, “visto che la presenza di olio di palma nei carburanti e per la produzione elettrica viene sbandierata come bio. In realtà è un disastro ambientale e umanitario”.
Un disastro per giunta pagato dai consumatori italiani, con un costo di circa 700 milioni all’anno. La legge, infatti, prevede un meccanismo che obbliga i distributori di carburante ad aggiungere una quota di bioliquidi considerati “rinnovabili”. Il sovrappiù di prezzo per questa aggiunta “green” alla fine viene pagato dal consumatore. “Crediamo di comprare un prodotto green, ma in realtà stiamo dando soldi alle lobby palmiere per bruciare foreste e sfruttare manodopera contadina nel sudest asiatico”, aggiunge Poggio. E nel frattempo paghiamo in bolletta elettrica una maggiorazione per comprare sul mercato internazionale olio di palma per la produzione di energia elettrica. In Italia sono circa 500 le centrali autorizzate a bruciare oli vegetali. Sono in grande maggioranza piccole centrali, inferiori a 1 megawatt. Gli impianti oltre i 5 megawatt sono una minoranza ma coprono il grosso della produzione. Usano prevalentemente olio di palma d’importazione. Nel 2018 ne hanno assorbite 557 mila tonnellate, per tre quarti provenienti dall’Indonesia e un quarto dalla Malesia.

Questo cosiddetto biodiesel, a conti fatti, produce molte più emissioni di CO2 del tradizionale gasolio. Nel 2016 il rapporto Globium, voluto dalla Commissione europea, ha quantificato questo differenziale. “Si è scoperto”, ci dice Poggio, “che la gran parte dell’olio di palma consumato in Europa per i biocarburanti, veniva per il 45% da piantagioni frutto di distruzione di foreste. E per il 25% da piantagioni nate dalla distruzione di foreste torbiere, che sono grandi giacimenti naturali di carbonio sedimentato nel suolo. Ecco perché l’UE ha appurato che bruciare olio di palma equivale a emettere il triplo della CO2 prodotta bruciando gasolio fossile”.

A tutto ciò va aggiunto l’impatto sociale. Il prezzo medio della manodopera contadina nelle piantagioni di olio di palma è inferiore a un dollaro al giorno. E nella raccolta sono impiegate intere famiglie, con bambini costretti a lavorare anche a molti metri di altezza, spesso esposti a pesticidi vietati in Europa. Ancor meno costano i piromani assoldati per incendiare le foreste. Nel 2019, la Banca Mondiale ha registrato in Indonesia intere settimane di blocco di scuole, aeroporti, strade per la fuliggine causata dagli incendi. Con una stima di 100.000 ricoverati per intossicazione.
Con la nuova direttiva UE sulle rinnovabili il contesto legislativo è cambiato. L’Europa ha stabilito la fine degli incentivi all’olio di palma entro il 2030, lasciando la facoltà agli Stati membri di anticipare. In Francia gli incentivi sono finiti già l’anno scorso. In Italia, finiranno a partire dal 2023, come stabilito nel disegno di legge di delegazione europea approvato dal Parlamento. “Ma ancora ci sono pesanti zone d’ombra”, aggiunge l’esponente di Legambiente. “Ad esempio quando si tratta di importazione di prodotti adulterati classificati come oli esausti. In questi casi l’olio di palma proveniente da piantagioni illegali viene sporcato un po’ e venduto come rifiuto. Così viene valorizzato sia come rifiuto recuperato che come bioliquido rinnovabile. In pratica, una concorrenza sleale ai servizi di raccolta differenziata dei nostri Comuni e al consorzio italiano di raccolta. Nel 2019 abbiamo importato 100 mila tonnellate di olio esausto proveniente dalla Cina e trattato in bioraffinerie spagnole. E non abbiamo nessuna certificazione sulla sua provenienza e sull’utilizzo che ne è stato fatto”.

Può esistere un olio di palma sostenibile? “Solo se ci sarà una contrazione del mercato: la produzione certificata copre soltanto il 20% del consumo totale”, risponde Poggio. “Se invece la richiesta dovesse continuare a salire, per rispondere ai nuovi usi energetici – oggi il diesel, domani il trasporto aereo e la navigazione – si dovranno sempre trovare nuove terre. E lo si potrà fare solo distruggendo foreste ed ecosistemi ad alta biodiversità”.


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