In quegli anni, che per quelli della mia età saranno i migliori di sempre, io ero un ragazzino delle medie. Uno di quelli che non studiava mai ma aveva sempre il massimo dei voti. La curiosità adolescenziale mi portava ad essere interessato a qualsiasi cosa, ma su nessuna riuscivo a concentrarmi pienamente. Sono quelli gli anni in cui le tue più elementari scelte definiscono quello che diventerai da grande: un uomo, un idiota, un genio, un cretino, un tamarro.
Ed è in quegli anni che ho incontrato una delle persone più importanti della mia vita: il mio maestro di musica delle medie.
Capii con chi avevo a che fare un giorno di scuola in prima media, durante l’ora di musica. Il bulletto della classe ne faceva di tutti i colori, ogni giorno prendeva di mira un ragazzino a caso, con sfottò, pugni, calci e offese. Proprio quel giorno capitò il mio turno. Il maestro lo capì, ma in prima battuta fece finta di nulla. Idiota, perché non lo mandi fuori? Non vedi che da solo fastidio? Non vedi che non riusciamo neanche a fare la lezione?
Ai primi segnali, ai primi sfottò io, che in genere stavo per i fatti miei a seguire la lezione da mezzo secchione quale ero, reagii quasi immediatamente ed in maniera automatica: gli mollai un ceffone che quasi gli spaccai il naso. Alla vista del sangue che sgorgava a fiotti dal naso, il bullo esplose in lacrime e, rivolgendosi al maestro, gli chiese se avesse visto il mio ceffone.
“Io non ho visto nulla, stavamo spiegando come leggere il pentagramma. Vai in bagno e asciugati“.
Il mio terrore di un provvedimento disciplinare sparì. Mi guardò con un’aria che mi anticipava quello che mi disse di nascosto alla fine della lezione: “Non permettere mai a nessuno di picchiarti. Ma la prossima volta cerca di non fargli così male….“.
Fu la prima volta che mi difesi con la forza, e da allora credo non sia più stato necessario, ma la reazione del maestro mi restò impressa per sempre. Riuscimmo a fare lezione per diverse settimane senza il bullo che disturbasse. Qualche mese dopo iniziammo a suonare il flauto dolce.
Poche lezioni dopo riuscivo già a suonare le prime melodie, e fui il primo a suonare un duetto col maestro. Al termine di quella semplicissima musica, tratta da un canto popolare e suonata insieme a lui, ero emozionantissimo.
“Tu devi prendere lezioni. Io non posso, sono il tuo insegnante a scuola, ma ti consiglio di andare a lezione da qualcuno. Vai in un negozio, scegli uno strumento e inizia a studiare” mi disse quasi come se fosse un ordine e non un consiglio.
“Prof le lezioni costano, il mio papà non so se può….“.
“Vuol dire che ti farò io lezione gratuitamente. Ci vediamo mercoledì, alle 16:30 a casa mia.”
“Ma…..“
“Io insegno pianoforte, suonerai il mio finché non ne avrai uno”.
Tornai a casa, non sapevo se essere contento o spaventato, dovevo dirlo a mio padre. Quando gliene parlai lui iniziò con l’essere diffidente, poi capì che lo desideravo più di ogni altra cosa in quel momento ed il giorno dopo venne a scuola a parlare col maestro. Lui gli spiegò che non voleva soldi, voleva solo darmi l’occasione di studiare la musica, perché credeva fossi portato. Papà accettò, ma insistette per pagare le lezioni come qualsiasi altro allievo e così, pochi giorni dopo ero nel magnifico negozietto di strumenti musicali della città a scegliere il mio primo strumento.
Andai a lezione due volte a settimana e studiai al piano almeno due ore al giorno, ogni giorno. Terminate le medie continuai ad andare a lezione dal mio maestro, anche se ormai facevo pienamente parte della piccola orchestra della città, diretta da lui. Ho affrontato per la prima volta un “pubblico” grazie a lui, abbiamo suonato in tanti posti, ho conosciuto amici e persone con le quali condividevo una passione.
Ma ho anche capito grazie a lui cosa fosse buono e cosa sbagliato, cosa non semplice per un adolescente. Durante le lezioni riusciva a darmi il consiglio giusto senza neanche che io parlassi. Sono diventato un uomo.
“Presto inizierai l’università, non avrai più il tempo di venire a lezione”.
“Forse maestro, ma verrò a trovarla ogni settimana.”
“La musica non ti garantirà un lavoro. Fa che resti sempre una passione, ma concentrati nello studio. Diventerai un ingegnere.”
Lo disse con lo stesso orgoglio di un genitore. Mi diede alcuni spartiti con musiche da lui composte, una delle quali si titolava “La Giostra dei Ricordi“, una ballata per piano di una dolcezza infinita, che ancora oggi suono ogni volta che riesco.
Il maestro aveva ragione ancora una volta. Col tempo dovetti lasciare le lezioni, suonavo sempre di meno, riuscivo a vederlo sempre di meno. Ma lui era sempre lì, il mercoledì alle 16:30, ma con un allievo che stavolta non ero io.
Quando lo vidi l’ultima volta era stato male, non me lo aveva detto e io non lo avevo saputo. Non riusciva più a far volare le dita sull’avorio e sull’ebano di quel piano sempre perfettamente accordato. Non riuscii a dirgli quanto importante era stato nella mia vita. Tutta la sua orchestra andò a trovarlo in quei giorni.
Poi la laurea, il lavoro, le corse, il tempo, i problemi. Non l’ho più sentito, non so oggi dove sia e soprattutto non so se ci sia. Forse ho solo paura di saperlo. Forse è meglio credere che sia lì, nel suo studio, a far volare le dita sul piano suonando “La Giostra dei Ricordi”.