La gita a Capri

Da Elettra

La gente pensa a Capri in estate come un posto dove il sole è sempre alto e l’aria che profuma di fiori, accarezza i cappuccini in Piazzetta e gli aperitivi la sera al ritorno dal mare quando chi ha la fortuna di poter rimanere pensa a dove far nottata e chi deve tornare sulla terraferma la guarda con un po’ di malinconia dalla piazza della funicolare mentre a Marina Grande il via vai di vapori, aliscafi e costumi è incessante.
Ma Capri sa essere anche altro da questo, altro da tutto, Capri sa essere Capri come non te l’aspetti e quando meno te l’aspetti ti stupisce senza cartoline banali (o proprio non pensavi potessero essere così forti, tutto insieme, tutto in una piccola sola isola).
Capri sa essere dura e aspra e impervia e scoscesa e ti mette alla prova continuamente -fisicamente, mentalmente, metaforicamente – e allora come nelle gite di quando eravamo bambini ci mettiamo in fila diligentemente per salire sulle nostre sedioline con i piedi penzoloni per raggiungere la cima di Monte Solaro e ridiamo e siamo felici e sembrano esserlo anche le persone che sono nate e cresciute da questa parte dell’isola. Sulla cima c’è un concentrato di bellezza che fa male agli occhi e che esorcizziamo e assimiliamo con le foto sceme, l’importante che ci siano i Faraglioni alle spalle, mentre il mare anche da quassù è blu e verde brillante e si vedono le pietre emergere dalla schiuma. E’ da qui che fanno le foto per le cartoline?
Ci lasciamo la cima alle spalle, in fila indiana lungo sentieri scoscesi pieni di api e farfalle, di sole che filtra tra i rami quando non sono troppo fitti.
“Dove si baciano di nascosto i ragazzi di Capri? Qui sù”. “Ne deve valere molto la pena”. Pensieri stupidi prima dell’eremo di Cetrella, che poi non ti aspetti un eremo su un’isola ma evidentemente anche la bellezza ha bisogno di essere contemplata e meditata da una certa distanza. Profumo di basilico e di fiori, ci siamo solo noi con le scarpe inadatte e due turisti solitari.
Si scende e restiamo in silenzio a puntare i piedi in avanti per non cadere mentre i sassi rotolano con i nostri passi. “Al cimitero siamo salvi”, niente di metaforico e spirituale, solo la fermata del microbus che ci porterà al Faro, finalmente il mare che volevo, finalmente il mare come lo conosco, finalmente il mare che può essere anche solo mare e non una via di collegamento tra la terraferma e l’isola. E qui è come me l’aspettavo, qui è come volevo che fosse. L’acqua è blu intenso, che sembra virata appositamente da una mano esterna e si abbatte sugli scogli in maniera così violenta che dopo poco dobbiamo alzarci. I bambini catturano meduse con i loro retini, le bambine gridano “Eccola, eccola, prendila”.
Il mare con gli scogli, erano anni che non mi tuffavo da uno scoglio e per un secondo la paura è sempre la stessa: “Se prendo male le misure? Se la schiuma ne nasconde una punta?” Bambina carica di adrenalina. Basta un attimo e galleggio nel blu elettrico e perfetto. Smetto di muovere le gambe, mi mantengo a galla solo muovendo un po’ le braccia a pelo d’acqua. E’ totale astrazione e empatia con l’acqua. Fino a quando un bambino inizia a gridare “Meduse, meduse”. Risalgo dalla scala di ferro, vento e pelle d’oca. Sole arancione e rosso come il Faro. Il resto del pomeriggio è aria da anni ’50, terrazze di legno, aria rilassata ma non svaccata, vino con le pesche, caponate e torta caprese. E sale sulla pelle, pelle salatissima fino a sera.


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