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La "giusta causa" del Pd: frenare la madre di tutte le riforme per non farsi licenziare dopo Monti

Creato il 24 marzo 2012 da David Incamicia @FuoriOndaBlog

I soliti campioni del cattocomunismo. E se qualcuno si sente offeso da questa definizione ne ha ben donde dato che chi è solito farvi ricorso vuole stigmatizzare con disprezzo la peggiore forma di conservatorismo consociativo che per decenni ha tenuto bloccato il nostro Paese. Perfino patetici, ibridi a mezza strada fra la nostalgia per un passato glorioso e l'illusione di poterne ricavare, specialmente adesso che l'odiato Berlusconi è uscito di scena, una trionfale cavalcata verso il potere. Né carne e né pesce, insomma. Con l'urticante boria dei primi della classe stampata in volto, ma con l'infamante marchio dell'eterna sconfitta ben impressa sulle terga. Innovatori a parole, anticaglia ideologica nei fatti. Per restare alla stretta attualità, penosi passacarte della Cgil.
Eppure il Pd era sorto accompagnato da ben altri auspici, con una chiara vocazione riformista e di governo, certamente avocando a sé la missione per il rinnovamento culturale della società partendo dall'azione politica. Poi, però, strada facendo, questi nobili e giusti obiettivi sono stati sempre più sacrificati in nome di biechi tatticismi, di calcoli utilitaristici. E la coerenza di un soggetto comunque generato da una fusione a freddo fra differenti tradizioni identitarie, assieme all'iniziale coraggio di navigare in mare aperto alla ricerca di nuovi modelli di riferimento e di nuovi blocchi sociali da rappresentare, sono andati allegramente a farsi benedire.
Hanno forse ragione, i democrats de noantri, solo quando rimproverano a Monti di prestare attenzione, in questa travagliata fase di sospensione della partitocrazia, più a Berlusconi e ai suoi soliti interessi che alle loro istanze. Ma quell'altro le elezioni in fondo le ha vinte, e gli interessi che lo riguardano - giustizia e televisione su tutti - potranno essere accantonati solo attraverso un reset democratico nelle urne. Il vero nodo da chiarire riguarda il "come". Insistendo con la foto di Vasto e fidandosi dei tanti sondaggi vintage fondati su soggetti e schemi già evaporati dall'immaginario degli elettori? Cercando forse di allargare dalemianamente quella strampalata combriccola a qualche altro convitato più presentabile ed affidabile di Vendola e Di Pietro? O magari invertendo la rotta e recuperando decisamente proprio lo spirito originario di Veltroniana memoria, puntando ogni carta su un ritrovato orgoglio autonomista e maggioritario con l'unica variabile davvero sensata di un'alleanza col Terzo Polo?
Sono rogne assai intricate. E il pallone nel quale i democratici sono piombati dopo la legittima accelerazione del governo sulla riforma del mercato del lavoro, indigesta a un sindacato ottocentesco come la Cgil, non fa che confermare lo stato vegetativo di un partito mai nato veramente e destinato a durare solo finché la contingenza lo consentirà. Perché due anime così diverse - ma forse sono molte di più - non possono convivere marcandosi perennemente a vicenda, ponendosi veti e diffidando l'una dell'altra. Non possono sperare di poter ancora illudere un elettorato ormai smaliziato e sveglio, che a dispetto degli annunci del lunedì sera del buon Enrico Mentana non è affatto scontato che fra un anno premierà le ambizioni di Bersani di subentrare a Monti a Palazzo Chigi, portandosi dietro la versione aggiornata della "gioiosa macchina da guerra".
Se oggi c'è Monti è innanzitutto perché si è dovuto prendere atto che una vera alternativa a Berlusconi e al suo governo non c'era. E il Pd, che era la principale forza di opposizione, è stato obbligato a ripiegare su una scelta tecnica, forse pure dietro la spinta di un vecchio ed arguto marpione come Napolitano e ben conoscendo la propria debolezza intrinseca dovuta innanzitutto alle insanabili lacerazioni e contraddizioni che l'attraversano. Le batoste regolari alle primarie sono poca cosa rispetto alla balcanizzazione che può scaturire nel partito per il sostegno ad un governo non vincolato alla ricerca dei consensi, pronto pertanto ad attuare misure necessarie seppure a volte dolorose.
E nemmeno la saggia speranza espressa ripetutamente da un avveduto analista come Eugenio Scalfari, ossia che proprio grazie alla parentesi montiana il Pd possa finalmente affrancarsi dai condizionamenti ideologici della parte più massimalista del sindacato e dei suoi antichi e bizzosi compagni di viaggio, per trasformarsi in una moderna forza di stampo liberalsocialista, è destinata a rimanere delusa. La comparsata parigina di Bersani alla convention del candidato socialista all'Eliseo François Hollande, dove si è fatto ritrarre assieme al gotha del progressismo del vecchio continente (eh, questi fotografi...), la dice lunga sul tasso di riformismo dei notabili democratici italiani.
Certo, la regia del Capo dello Stato e in fondo la lungimiranza politica dell'attuale Premier - più politica di quella espressa dal ceto dirigente dei partiti italiani negli ultimi tre lustri - tenteranno di fare in modo che il Pd non esploda non solo per un gesto di correttezza e di generosità verso uno dei soggetti che sostengono il governo, ma per non compromettere lo stesso percorso riformatore di quest'ultimo. Chi l'avrebbe mai detto? Un'assoluta eminenza dell'élite accademica e finanziaria nazionale come Monti chiamata a gestire l'emergenza del momento non solo per risollevare le sorti economico-sociali del Paese, ma pure per occuparsi delle rogne "fra" e "dentro" i partiti.
Anche in questo caso, però, il lavoro è tutt'altro che agevole. Sia perchè i principali azionisti di maggioranza fanno fatica a reinventarsi pure in chiave concettuale adattando il proprio ruolo e le proprie politiche al mutato scenario, tanto che mentre il Pd stenta a recidere il cordone ombelicale con la Cgil e con i "vastasi" (aggettivo col quale si vuole simpaticamente identificare quelli della foto di Vasto ma che in molte zone del mio Sud è sinonimo del più noto "vajassi" e significa rozzi, sguaiati e cialtroni) il Pdl insegue ancora e disperatamente l'unione con la Lega, sia in quanto siamo in piena campagna elettorale per le amministrative e in certi periodi, si sa, la politica è come se uscisse di senno divenendo disponibile ad accarezzare i peggiori istinti sociali per una manciata di voti in più.
Tuttavia, le elezioni amministrative passeranno in fretta e dopo aver dispensato le solite promesse a destra e a manca per un paio di mesi i partiti si risveglieranno nel limbo che oggi gli compete, di nuovo in preda ai mal di pancia, alle resistenze e alle incertezze per dover sostenere un esecutivo che non hanno mai accettato per davvero come legittimo anzi, in più di qualche occasione non hanno rinunciato a definire apertamente come usurpatore o servo dei poteri forti ad andar bene. E allora torneremo a parlare del nulla politico mentre Monti e i suoi ministri cercheranno di proseguire il lavoro sporco ma necessario (e a quanto pare apprezzatissimo dalla maggioranza degli italiani), occupandoci ancora dei condizionamenti interessati di Berlusconi e dei dubbi amletici del Pd.
Pd che rappresenta, dopo la tracotanza iniziale, il vero ventre molle dell'alleanza eterogenea che sostiene Monti. E che come sempre ha avuto l'abilità di far uscire dall'angolo il Pdl finendo per intestargli, forse involontariamente ma di sicuro stupidamente, gran parte delle ottime misure che il governo tecnico sta varando. Circostanza che ha fatto scattare l'allarme fra le fila dei veltroniani e di molti ex margheritini che pur se ancora timidamente, a causa proprio dell'imminente voto amministrativo, hanno iniziato a rilevare come questo atteggiamento della maggioranza bersanian-dalemiana, appiattita sulle istanze della Cgil, possa rappresentare il suicidio definitivo del partito col rischio che esso venga emarginato nel gioco degli equilibri della maggioranza che sostiene il governo, a vantaggio di un nuovo asse fra Pdl e Terzo Polo, e quello ancor più grave di pregiudicare definitivamente le già scarse possibilità di un'intesa futura con Casini.
La vicenda di Palermo è l'esatta rappresentazione dello stato confusionale nel quale versa il Pd, ormai esposto con cadenza quasi quotidiana al ridicolo. Lì i democratici hanno come sempre organizzato e gestito le primarie "di coalizione", fedeli allo schema che prevede che essi debbano donare sempre e comunque il sangue, in termini di consensi e di presenza sul territorio, ai propri alleati. Stavolta a scanso di equivoci - visti i pressimi precedenti della Puglia, di Napoli, Milano, Genova e chi più ne ha più ne metta - si schierano con la stessa candidata fortemente voluta da Di Pietro e Vendola: Rita Borsellino. Questa - pensa la sfiga! - manco a dirlo le busca di misura dal giovane e dinamico outsider Fabrizio Ferrandelli, ex Idv sostenuto dai pezzi da 90 del Pd siciliano.
Apriti cielo! Sospetti, accuse, riconteggi, ricorsi, perfino esposti alla Procura. Ma alla fine, niente da fare: vengono confermate la vittoria di Ferrandelli e la sconfitta della sorella del famoso magistrato ucciso dalla mafia. Cosa succede allora? Una vera coalizione si stringerebbe senza esitare attorno al candidato ufficiale ma siccome quelli, come detto, sono "vastasi" il Pd nazionale è costretto a fare buon viso a cattivo gioco riconoscendo la piena legittimità delle scelte di quello siciliano, il furbo Vendola si pone a ruota sulla stessa scia per non regalare una campagna elettorale, a questo punto complicatissima, a posizioni troppo moderate e Tonino da Montenero manda tutti affanculo e candida il suo uomo forte locale Leoluca Orlando. La domanda, come direbbe qualcuno, sorge a questo punto spontanea: ma è lo stesso modello che Bersani pensa di esportare al governo nazionale dopo Monti?
Alfano, quello dell'ABC partito in sordina e pieno di "se" e di "ma" nell'avventura montiana, si gode sornione lo spettacolo offerto dal Pd. Ma magari non tifa affatto per una scissione di quel partito, come forse fanno dalle parti del Terzo Polo, perchè al Pdl conviene paradossalmente sperare che il suo antagonista storico rimanga compattamente al traino della Cgil e supino di fronte ai ricatti di Sel e Idv. Altrimenti come potrebbe dimostrare la tesi che il governo tecnico sta operando in continuità con quello guidato da Berlusconi, nell'auspicio di far così dimenticare agli italiani le malefatte decennali del centrodestra? Il vero obiettivo del Pdl, al quale il Pd sta facendo ottimo gioco di sponda (e stavolta non si comprende quanto insonsapevolmente e quanto stupidamente) è di impedire il profondo rinnovamento del quadro politico italiano in atto grazie a Monti e di soffocare sul nascere ogni tentativo di trasformare il sistema politico italiano da bipolare a multipolare, dove possa trovare piena cittadinanza una opzione realmente liberale e riformatrice che si assegni il compito di proseguire l'opera dell'attuale esecutivo.
Insomma, Veltroni, Letta e in genere tutti i riformisti del Pd farebbero bene a battere un colpo. Se non adesso sicuramente dopo le prossime amministrative. Per intraprendere percorsi diversi e cercare nuovi compagni di viaggio, e per non regalare definitivamente Monti e, in prospettiva, anche il Terzo Polo a un silente ma sempre scaltro Berlusconi. Troppo spesso, in passato, il Pd nelle sue precedenti configurazioni è stato capace di resuscitare politicamente i cadaveri. Ma stavolta no, non può e non deve succedere. E poco importa se Bersani continua a sentirsi offeso e ad essere furioso con la stampa che "s'inventa le spaccature che non esistono", col governo che "è troppo accondiscendente con Berlusconi", con Alfano e Casini che non fanno nulla per aiutarlo a coprire le difficoltà del suo partito. Se proprio deve prendersela con qualcuno lo faccia con se stesso per l'indecifrabile linea fin qui portata avanti.
L'occasione per rimediare, del resto, gliela fornisce proprio la riforma del mercato del lavoro, con tutti gli ammorbidimenti possibili che di certo interverranno. Ma questo è il momento di scoprire le carte. E' disposto il Pd a sostenere Monti fino alla fine, anche al costo di strappi insanabili con gli alleati di ieri e con la Cgil? E' disposto, come ha avvertito Enrico Letta, a non ostacolare le riforme del governo e ad accantonare il vecchio fantasma di Berlusconi? Vuole, insomma, dimostrare nei fatti la sua vocazione riformista finora solo enunciata a parole? Considera più insostenibili le posizioni espresse da Ichino o quelle della Fiom? Davvero è pronto a non votare in Parlamento una riforma del lavoro non avallata dalla Camusso? Se è vero, in definitiva, come continua a ricordare il Presidente Napolitano, che il Paese va riformato e tutti devono rinunciare a qualcosa, vorrà il Pd  pensare al futuro di tutti gli italiani e non solo a quello dei propri precari equilibri interni?
Perfino lo stesso Napolitano ha auspicato per l'Italia, nel suo messaggio al recente congresso del PLI, politiche effettivamente e stabilmente liberali capaci di stemperare le tensioni ideologiche. Che non significa evitare il dialogo e il confronto, tanto che è apparso subito evidente che la formula "salvo intese" adottata dal governo nel licenziare il disegno di legge per la riforma del lavoro in Consiglio dei Ministri sia proprio farina del sacco del Quirinale, per tendere la mano al Pd e favorire ulteriori margini di mediazione con la Cgil. Ma non al prezzo di rinunciare ai cambiamenti necessari in ambito sociale ed economico e nella stessa politica.
Perché dopo Monti non si potrà tornare al sistema precedente, non si potrà passare dal tenere il Paese bloccato in nome delle esigenze personali di Berlusconi al tenerlo bloccato per salvaguardare gli interessi del sindacato e del Pd. E i segnali di nervosismo dello spread di questi giorni devono fare intendere, in particolare a Walter Veltroni e a Enrico Letta, che siamo ancora sotto osservazione, che 'a nuttata nun è ancora passata come direbbe lo stesso Capo dello Stato, che gli speculatori sono sempre in agguato pronti a sfruttare il minimo segno di cedimento e di nervosismo dei partiti italiani rispetto a provvedimenti strutturali e a sacrifici che ci vengono chiesti dall'Europa e dai mercati.
Ma il popolo del Pd pare in gran parte fregarsene dei risvolti più generali ed è in subbuglio rispetto alla linea ferma del governo sul lavoro. Mentre i sonni di Bersani, di fatto impossibilitato a muoversi nettamente in una direzione piuttosto che in un'altra, sono sempre più agitati dalle mosse delle anime filogovernative del partito. La prospettiva è duplice: subire un tracollo elettorale alle amministrative se si accetta di seguire le richieste del Presidente della Repubblica e di sostenere senza capricci Monti; oppure andare incontro a una scissione se non le si ascolta.
Una bega di bottega già incancrenita e che rischia ora di abbattersi sull'intero condominio Paese anche per la scelta del governo, di nuovo imposta dal Quirinale, di procedere sul pacchetto lavoro con un semplice disegno di legge che prevede una discussione lunghissima in Parlamento ed apre la strada ad ogni scenario in quello che da Di Pietro è stato già annunciato come un vero e proprio "Vietnam". Con l'assai probabile risultato che, fermo restando che una riforma vedrà comunque alla fine la luce, nemmeno potendo giovarsi di più tempo a disposizione, e di strumenti di discussione meno rigidi alle Camere, il Pd riuscirà a nascondere le proprie profonde contraddizioni interne.
Specie se si considera che la Cgil, a differenza di Cisl e Uil, sta indirizzando la propria battaglia intransigente agitando strumentalmente solo il simbolo dell'art. 18 e non considerando la proposta di riforma nel suo complesso, che contiene invece buone norme pensate soprattutto per agevolare il mercato in ingresso delle nuove generazioni, saggi aggiustamenti all'impianto degli ammortizzatori sociali e misure utili a stimolare lo sviluppo.
Queste sono, in sintesi, le novità più rilevanti previste dal Ddl, nella speranza che gli opposti ideologismi in Parlamento non le peggiorino:
  • proprio sull'art. 18, che conferma la regolamentazione proposta dal governo alle parti sociali anche e soprattutto in materia di licenziamenti economici, arriva il rito abbreviato (come richiesto dalla stessa Cgil) per le controversie davanti al giudice del lavoro, con l'obiettivo di ridurre i costi indiretti del licenziamento stesso;
  • l'assicurazione sociale per l'impiego (ASPI), la nuova  forma di indennità di disoccupazione che entrerà in vigore dal prossimo anno, viene estesa ai giovani e agli apprendisti;
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  • si istituisce un fondo di solidarietà per la tutela dei lavoratori che operano nei settori non coperti dall'istituto della cassa integrazione straordinaria;
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  • si prevede il meccanismo delle cosiddette "quote rosa"  nelle società controllate dalla pubblica amministrazione, con l'obiettivo di ampliare e potenziare i meccanismi di accesso delle donne alle posizioni aziendali apicali;
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  • si istituisce una polizza bonus-malus che prevede premi per le aziende che stabilizzano i propri dipendenti precari;
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  • sono previste norme di contrasto alla pratica delle "dimissioni in bianco", senza oneri per il datore di lavoro e per il lavoratore, e viene altresì rafforzato il regime della convalida delle dimissioni rese dalle lavoratrici madri con l'estensione fino a tre anni di età del bambino;
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  • in materia previdenziale, le aziende potranno stipulare accordi con i sindacati per incentivare l'esodo dei lavoratori anziani con costi a carico dei datori di lavoro;
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  • si introduce l'obbligo del congedo di paternità;
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  • viene sfoltita la giungla dei contratti atipici per concentrare risorse su una nuova forma di apprendistato che avrà una durata minima di sei mesi e costituirà il "trampolino di lancio" nel mondo del lavoro; viene inoltre innalzato il rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati, che passa dall'attuale 1/1 a 3/2; infine, si prevede un meccanismo che vincola l'assunzione di nuovi apprendisti all'avvenuta stabilizzazione di almeno il 50% nell'ultimo triennio.

Da ex sindacalista, al netto dei pregiudizi legati alle modifiche all'art. 18, posso osservare che non sarà la migliore delle riforme ma costituisce senza dubbio un deciso passo in avanti rispetto allo stagno fin qui in vigore. Un impianto di norme partorito avendo a riferimento le difficoltà di inserimento e di mobilità sociale del mondo giovanile, nel segno di una ricomposizione delle evidenti e croniche difformità di trattamento fra generazioni. Voluto, inoltre, per provare a smuovere le acque dell'immobilismo economico nel quale il sistema italiano delle imprese è piombato a causa della crisi, in nome della crescita da più parti invocata e nel tentativo di attirare gli investimenti stranieri arginando la spinta della speculazione finanziaria alla quale, come già ribadito, siamo ancora sottoposti.
Ma in Italia, purtroppo, il parere di chi come me non dovrà presentarsi alle elezioni e non dovrà far dipendere le proprie fortune politiche anche da un potente apparato come la Cgil, è difficile che conti quanto quello di chi guida un partito. Soprattutto se si tratta di un partito allo sbando e a forte rischio estinzione.

La
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