La Gran Bretagna reazionaria. Dalla “nazione cristiana” all’antieuropeismo dell’Ukip

Creato il 22 aprile 2014 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 22 aprile 2014 in Occidenti, Slider with 0 Comments
di Matteo Zola

da LONDRA – “La Gran Bretagna è un paese cristiano” queste le parole di David Cameron, primo ministro britannico e leader del partito conservatore, rilasciate in un’intervista al Church Times, quotidiano espressione della Chiesa anglicana. Non si tratta di una frase che possa essere presa alla leggera in un paese che ha fatto del pluralismo, anche religioso, la ragione del suo successo. Il tema delle radici cristiane si presenta a poco più di un mese dalle elezioni europee, viste come una cartina tornasole dell’operato del governo, e a un anno dalle elezioni parlamentari.

Più precisamente Cameron ha dichiarato cheLa Gran Bretagna dovrebbe essere più sicura di sé nell’affermarsi un paese cristiano, più ambiziosa nel promuovere il ruolo della fede nella società e più evangelica. Molte persone mi hanno detto che nel Regno Unito è più facile essere ebrei o musulmani rispetto ad altri paesi e questo si deve alla tolleranza che il cristianesimo ha sviluppato in favore delle altre fedi”.

Secondo Cameron il Regno Unito sarebbe un paese più tollerante di altri grazie all’impulso del cristianesimo. E’ un’affermazione importante in un paese che, fino ad ora, si era sempre vantato di essere secolarizzato, post-cristiano e multi-confessionale. La fede appartiene alla sfera della vita privata e resta subalterna alla sfera pubblica. Il fatto che la monarchia sia a capo della Chiesa anglicana dal 1534 ha significato nei secoli la “laicizzazione” della Chiesa (e non il contrario). Con le sue affermazioni Cameron cerca consensi tra gli elettori più conservatori e nel clero, ma non può non sapere che la realtà britannica è ben diversa dall’essere quella di “un paese cristiano”.

Una società secolarizzata

Solo il 19,9% della popolazione è di fede anglicana, appena l’8,6 è cattolica romana, e il 2,2 è presbiteriana. Il 32,8% non è religioso. Il 4,4% è musulmano e l’1,3% è induista. Dal censimento del 2011 è risultato che il 59,5% dei cittadini si definisce “cristiano”. Un appartenenza culturale e spirituale piuttosto che una espressione di fede convinta: solo il 4% dei cristiani, infatti, si reca in Chiesa regolarmente. Ma Cameron, con la parola “cristiano” intende dire “anglicano”. Egli infatti si definisce “un classico membro della Chiesa anglicana, non sempre regolare e un po’ vago sulle questioni più complesse della fede”.

E gli altri? Cattolici romani, ortodossi, testimoni di Geova, pentecostali, evangelici, congregazionali, quaccheri, presbiteriani, siamo sicuri che Cameron stesse parlando anche per loro? Quando il primo ministro parla di una società “più evangelica” a quale interpretazione del vangelo si riferisce? E’ chiaro che parla dell’anglicanesimo. Per questo la sua dichiarazione, oltre che non rappresentare il 32% dei non credenti e l’8% dei non cristiani, è divisiva anche all’interno della comunità cristiana.

Cameron in cerca di consensi

Le dichiarazioni del primo ministro sono quindi pericolose: perché mettono in discussione il tradizionale impianto multi-confessionale della società britannica; perché dividono i fedeli cristiani; perché si tratta di un tentativo di ottenere l’appoggio della Chiesa per la sua campagna elettorale, spostando estremamente a destra il suo partito. Alla disperata ricerca di voti, Cameron ha deciso di giocare il ruolo del tradizionalista più che del conservatore cercando di strappare voti all’Ukip, il partito ultraconservatore guidato da Nigel Farage, dato al 27% alle prossime europee, appena tre punti sotto il partito laburista (30%) mentre i conservatori scenderebbero al 22% e loro alleati di governo, i liberali, sarebbero solo all’8%.

L’Ukip, non solo contro l’Europa

L’Ukip è noto in Europa per essere un partito euroscettico, ma è molto altro. L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è certo un cavallo di battaglia ma si accompagna al rifiuto dell’immigrazione (con accenti a tratti xenofobi), al sessismo (basta leggere le dichiarazioni di Farage e compagni sul ruolo delle donne nella società), a una visione tradizionalista e confessionale della società (propongono che la monarchia e la Chiesa d’Inghilterra abbiano più poteri).

L’Ukip nasce da alcuni fuoriusciti del partito conservatore nel 1993. I suoi consensi aumentano con l’accrescersi dell’insicurezza economica e sociale che, proprio negli anni dell’austerity voluta del governo Cameron, ha raggiunto il suo apice. Come per i Repubblicani americani, ostaggio dei Tea Party, i conservatori britannici sono ostaggio dell’Ukip e per sottrarre loro voti Cameron ne sta scimmiottando le retoriche. Non a caso, nel gennaio scorso, Cameron si era detto contrario all’ingresso di romeni e bulgari, parlandone con accenti populisti e xenofobi che li ritraevano come zingari e accattoni. Ma se il leader di un partito populista parla male di donne e immigrati è un conto, se lo fa il primo ministro di un partito con duecento anni di gloriosa storia alle spalle, è un altro.

Un Regno disunito

In base ai sondaggi, il 49% della società britannica è conservatore o ultraconservatore. Questi consensi si registrano principalmente in Inghilterra, mentre in Scozia, Nord Irlanda e Galles sono tradizionalmente laburisti e liberali (nelle ultime quattro elezioni i conservatori hanno eletto un solo deputato in tutta la Scozia). La società inglese è dunque quella più arroccata a destra del Regno. E il partito conservatore, il più “inglese” di tutti, si vede oggi scavalcato a destra dall’Ukip. E’ interessante notare come l’Ukip prenda pochissimi voti in Scozia e Nord Irlanda dove è percepito come una sorta di partito “nazionalista” inglese, non lontano dalle posizioni del British National Party, più apertamente “fascista”, come lo ha definito lo stesso Cameron.

La crescita di consensi per l’Ukip e la progressiva radicalizzazione del partito conservatore sembrano mostrare una Gran Bretagna attratta dall’ultra-conservatorismo ma, come si è visto, lo è di fatto la sola Inghilterra.

La Scozia è guidata dal 2007 dal Partito nazionale scozzese (SNP) che, negli ultimi anni, si è fatto promotore di una maggiore autonomia da Londra e che guida la battaglia per l’indipendenza scozzese. Il SNP è un partito social-democratico sul modello scandinavo, assai distante dal partito conservatore in carica a Londra. Le sue politiche in merito all’immigrazione e al pluralismo non sono quelle di un partito “nazionalista” e di fatto si tratta dello Scottish National Party, non dello “Scottish nationalist party“. Il prossimo 18 settembre gli scozzesi saranno chiamati a votare per l’indipendenza e proprio la volontà di costruire una “società diversa” da quella inglese potrebbe portare gli indipendentisti alla vittoria.

In tal caso la rimanente parte della società britannica si troverebbe molto più spostata a destra e la vittoria dei populisti dell’Ukip, già probabile adesso, sarebbe forse inevitabile anche alle elezioni politiche del 2015. Cosa ne sarebbe allora della plurale società britannica?

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