la grande bellezza

Creato il 24 maggio 2013 da Albertogallo

LA GRANDE BELLEZZA (Italia/Francia 2013)

Un uomo di 65 anni, un mondano di Roma – anzi: il re dei mondani di Roma – si aggira per la città, partecipando a feste perlopiù cafone, scopando qua e là, incontrando vescovi, sante e principesse, chiacchierando con gli amici… Un tempo quell’uomo, Jep Gambardella, fu uno scrittore di talento. Oggi è soltanto un cinico e annoiato borghese che non sa bene che farsene degli anni che gli rimangono da vivere.

La figura di quest’uomo geniale ma fallito, mollemente adagiato sugli allori di una vita lussuosa ma vuota, piena di gente ma solitaria, mi ha ricordato quella di Harry, protagonista delle Nevi del Kilimangiaro, un racconto di Ernest Hemingway del 1936:

Dentro di te dicevi che avresti scritto di questa gente; dei ricconi; che non eri proprio uno di loro ma una spia nel loro territorio; che ne saresti uscito e lo avresti descritto e che una volta tanto sarebbe stato descritto da uno che sapeva di cosa stava scrivendo. Invece non lo avrebbe fatto mai, perché ogni giorno passato senza scrivere, a crogiolarsi negli agi, a essere ciò che disprezzava offuscava il suo talento e gli toglieva la voglia di lavorare, tanto che alla fine aveva smesso. Con i suoi conoscenti di adesso si stava molto meglio quando non si lavorava.

Come Harry, Gambardella ha buttato nel cesso la sua vita per pigrizia, per amore dell’ozio, per condurre un’esistenza simile a quella degli antichi patrizi romani, che duemila anni prima, negli stessi luoghi frequentati da Jep, se ne stavano a godersi le bellezze di Roma, incuranti di un impero che sotto i loro occhi si stava lentamente ma inesorabilmente sgretolando. Un impero che più volte è sembrato sul punto di risorgere: durante i secoli del Rinascimento, magari, quando i papi avevano deciso di trasformare la città in un museo a cielo aperto dedicato al culto del loro dio, convocando alle corti vaticane i più grandi artisti dell’epoca. Ne uscirono chiese, affreschi, palazzi grandiosi, meta, cinquecento anni dopo, dei pellegrinaggi notturni di Jep, complice un giovane uomo che, chissà perché, possiede le chiavi di tutti questi tesori, inaccessibili alla volgare massa dei turisti. Lo scrittore vi conduce Ramona (anagramma, ovviamente, di Romana, nome che, declinato al maschile, non a caso viene affibbiato anche al perdente per eccellenza tra i personaggi del film, aspirante scrittore teatrale senza talento, imprigionato in un’irrimediabile mediocrità), donna non più giovane ma ancora bellissima, e triste, e malata. Ma Roma parve rinascere anche e ancora una volta qualche secolo dopo, negli anni Sessanta del Novecento, quando Cinecittà e il boom economico sembrarono, per un momento, voler restituire all’Urbe il suo antico splendore. Come il Marcello (Mastroianni/Rubini) felliniano, Jep si butta con entusiasmo e dedizione nello squallore, nel Satyricon di un mondo sull’orlo del baratro abitato da poveracci, intellettualoidi, cinici, falliti, depressi, nobili caduti in disgrazia, preti senza fede.

Diretto da Paolo Sorrentino, La grande bellezza è un film totale, un capolavoro di quelli che capita di vedere una volta ogni vent’anni, un’opera capace di parlare di tutto (Roma? l’Italia? L’Occidente? Il mondo?) su più livelli, eccellendo sotto un punto di vista tanto estetico quanto letterario: è davvero raro, rarissimo trovarsi di fronte a pellicole che siano al tempo stesso così belle da vedere e così profonde, struggenti da ascoltare, in perfetto equilibrio tra maestria registica (da non sottovalutare il tocco del direttore della fotografia, il sempre grande Luca Bigazzi), ritmo e bellezza dei dialoghi e un’interpretazione collettiva del cast che ha dell’incredibile. C’è Toni Servillo, certo, enorme come spesso accade, ma a colpire è soprattutto il modo in cui Sorrentino riesce a gestire i tanti personaggi più o meno minori del cast: una sorprendente Sabrina Ferilli, un Carlo Verdone mai così tragico, Carlo Buccirosso, Isabella Ferrari, Roberto Herlitzka ecc. Numerose anche le apparizioni – fugaci ma significative – di personaggi famosi nella parte di loro stessi: Fanny Ardant, Antonello VendittiLa grande bellezza è un titolo beffardo ma anche no: c’è tanto squallore – artistico, sociale, umano – in questo film, ma anche tanta sincera ammirazione per ciò che l’uomo può fare, che si tratti di scolpire una statua, di scrivere un libro, di prendersi cura dei poveri o di piangere – sinceramente e senza controllo – per la morte di qualcuno che non si conosceva nemmeno tanto bene. Definire “felliniana” questa pellicola potrebbe forse suonare ovvio e riduttivo (sebbene il “mostro marino”, rappresentato qui dalla carcassa della Costa Concordia, sia un esplicito omaggio, uno dei tanti), ma è proprio dai tempi della Dolce vita che un film non riusciva a scavare in modo così completo e perfetto nell’animo (anzi, nell’anima) di questa cosa che chiamiamo Roma, che chiamiamo Italia. Ora anche il XXI secolo ha il suo film italiano, il suo termine di paragone, il suo modello a cui, presumibilmente, tutte le altre opere dalle simili ambizioni verranno in un modo o nell’altro accostate e paragonate.

Alberto Gallo



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