La grande bellezza

Creato il 16 giugno 2013 da Lo Sciame Inquieto

Ok, non è un capolavoro. E tutto sommato sono d’accordo con quasi tutte le critiche che ho letto e sentito: è estetizzante e in buona parte freddo, è troppo lungo e dopo l’episodio della giraffa gira un pochino a vuoto e si perde, i movimenti di macchina da presa e le scelte di montaggio che giocano con la sequenza temporale finiscono per essere un po' stucchevoli, lo sguardo nei confronti del protagonista, Jep Gambardella (Toni Servillo), è fin troppo compassionevole.
Ok, tutto vero.
Però il film mi è piaciuto. E non è detto che possa piacere a chi a Roma non ci ha vissuto per un tempo sufficiente da coglierne le idiosincrasie e da andare al di là della superficie, senza però esserne consustanziale come chi ci è nato.
Del film mi è piaciuto lo sguardo su una città la cui bellezza non è solo grande, ma addirittura soverchiante, eccessiva, senza competizione, soprattutto per coloro che hanno le chiavi giuste per accedervi. Quella di Sorrentino è la Roma di chi ha la fortuna e il privilegio di poterla vivere epurata di tutte le sue brutture (le periferie squallide, i trasporti pubblici come carri bestiame, il traffico soffocante, la sporcizia, la povertà diffusa). Una Roma che forse non esiste davvero neppure per i ricchissimi che Sorrentino ci racconta, ma che rappresenta però – soprattutto per chi romano non è, come Sorrentino e come Gambardella (e come me) – l’anima di una città fatta di una incredibile e potentissima contraddizione: quella tra la sua bellezza insostenibile (vedi la prima scena del giapponese che sviene mentre fotografa il panorama mozzafiato della città dal Gianicolo) e la dimensione umana che gli è propria, la cui volgarità e/o squallore è tracotante e in buona parte inconsapevole.
Forse, allargando lo sguardo, è l’immagine concentrata ed elevata all’ennesima potenza dell’Italia tutta, cui troppa bellezza è stata regalata dal passato perché sia stimolato lo sforzo di cercare la bellezza nella quotidianità e nelle piccole cose, di costruirla, di valorizzarla e non solamente di consumarla passivamente. La bellezza diventa tappezzeria quando è talmente scontata da passare inosservata, quando è talmente inevitabile da non essere neppure riconosciuta. La bruttezza è la forma di espiazione cui troppa bellezza esterna ci condanna.
L’esplosione sonora e visiva dei primi minuti del film spiazza e inquieta, ma dà già la cifra di quella necessità di riempire l’assenza di qualunque risposta e forse perfino delle possibili domande.
Sorrentino non giudica e Jep – che pure incarna l’anima cinico-critica di questo mondo – ne è parte integrante, non si sottrae ai suoi riti e alle sue meschinità. Anzi, in qualche modo ne è la massima espressione, in quanto non c’è niente di ingenuo nelle sue scelte e nel suo modo di essere e di comportarsi (come invece è ad esempio nel caso di Ramona, una brava Sabrina Ferilli), bensì c’è lo snobismo cinico dell’intellettuale mancato che ha abbracciato la mondanità fino a farne una specie di ragione di vita.
Nel film si affastellano personaggi, situazioni, episodi marginali, elementi di nonsenso, apparenti spunti di riflessione, che ne fanno un vaso di Pandora che forse lo stesso regista ha fatto fatica a dominare e che, alla fine, gli ha preso un po’ la mano facendogli – di tanto in tanto – smarrire il percorso. Sorrentino è vittima dello stesso intellettualismo di Jep, ma come quest’ultimo sembra alla fine non sapere esattamente cosa farsene. E forse ne è anche consapevole.

Voto: 3,5/5



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