Recensione di Marco Zaninelli
Titolo originale: La grande bellezzaPaese: Italia, FranciaAnno: 2013Durata: 142 min.Regia: Paolo SorrentinoSceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto ContarelloCast: Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Galatea Renzi, Pamela Villaresi, Franco Graziosi, Giorgio Pasotti, Roberto Herlitzka, Serena Grandi, Luca Marinelli, Antonello Venditti
Il film di Sorrentino vince e convince: del 13 gennaio è la notizia della vittoria al Golden Globe come Miglior film straniero; ora, da amanti del buon cinema (soprattutto se italiano), attendiamo con ansia le nomination agli Academy Awards. Segnatevi bene la data in rosso, 16 gennaio! E ora premi o non premi veniamo a noi. «A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: "La fessa". Io, invece, rispondevo: "L'odore delle case dei vecchi". La domanda era: "Che cosa ti piace di più veramente nella vita?" Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella». Inizio banale per una recensione su La grande bellezza? Sì, non c’è dubbio. È anche la frase citata nella pagina di wikipedia del film! Ma è bastata questa. In realtà non penso che in questo film ci sia qualcosa da capire. Ti piace se hai sentito la vibrazione. Ovviamente sto scherzando. Ci sarebbe molto da dire e da spiegare, forse non si capirà tutto, però non è sbagliato cercare di farlo; sarebbe una pellicola da rivedere molto volte per coglierne sfumature e particolari; due notati nei primi dieci minuti: il film parla di Roma, della sua gente, di una città eterna ma sempre decadente; ma Roma è anche l’Olimpico, è l’AS ROMA, è anche Francesco Totti che infatti viene citato in un titolo di giornale “Allarme per Totti”. Durante la festa iniziale, tra il frastuono della musica si sente una voce dire “Che hai visto Ermanno (Olmi)?”. Se uno dei protagonisti è la città stessa e la sua sfrenata mondanità, l’altro è il nostro scrittore (un unico celeberrimo romanzo, L’apparato umano, poi più niente), Jep Gabardella (Tony Servillo) e gli occhi con cui guarda tutto questo; si definisce non un mondano ma il Re dei mondani: «non volevo solo partecipare alle feste. Volevo anche il potere di farle fallire». In tutto questo teatro il rischio è di porre noi stessi al di sopra delle meschinità, della falsità e dell’uomo miserabile, invidiando poi segretamente quel mondo patinato, disimpegnato, splendente ma marcio sotto i lustrini. Chi fa questo, come la scrittrice dalla “vocazione civile” Stefania (Galatea Ranzi), viene ripreso con la durezza di un sorriso e con la violenza della sincerità proprio da Jep, che ne demolisce ogni falsa certezza sulla propria vita e ogni superbia. Ogni personaggio, ogni uomo o donna ha la propria miseria, ha la propria tragedia. Gli amici, gli incontri notturni di Jep ne sono la palese dimostrazione: l’amico Romano (Carlo Verdone), autore teatrale mai riuscito e sottomesso a una donna che lo usa; Viola, ricca madre di un figlio pazzo, la morte del quale porterà la donna a donare tutti i propri beni alla Chiesa e a farsi missionaria in Africa; Ramona (Sabrina Ferilli), spogliarellista affetta da un male incurabile con cui Jep stringe un rapporto importante; il marito di Elisa, un amore giovanile di Jep, la quale, alla sua morte, lascia un diario confessando il sentimento mai spento per lo scrittore e definendo il marito, dopo 35 anni di matrimonio, semplicemente “un buon compagno”; etc. Questo film si muove per scene immortali, per singoli sipari, per dialoghi intensi, ha una trama labile ma grandiosa. Potrebbe essere interamente smembrato su youtube. Ogni scena varrebbe anche di per sé e resta memorabile per motivi differenti: il dialogo con il proprietario del night dove lavora Ramona, i dialoghi e le passeggiate notturne con la spogliarellista, l’incontro sul balcone con la “Santa”, i flashback in cui il giovane Jep trova il suo amore giovanile, il funerale del figlio di Viola, la scena della Giraffa (così, in ordine sparso) ... Tuttavia, dal trash, dalla volgarità, dall’apparenza e dalla notorietà più ricercata, Jep sembra riuscire a trovare la propria rinascita, superando l’ironia disillusa e l’atteggiamento decadente e rassegnato, cogliendo la Grande Bellezza degli «sparuti incostanti sprazzi di bellezza», nello «squallore disgraziato e l'uomo miserabile», nei ricordi dell’amore giovanile, sincero e vero, o semplicemente nella vita, nei sentimenti. E riscoprendo la vita, Jep ritrova l’ispirazione e la scrittura; è di nuovo pronto a ricominciare a scrivere. Ho già detto molto. Non voglio però parlare delle vedute romane all’alba, delle musiche struggenti e sempre azzeccate e nemmeno della critica agli intellettuali “di partito”, agli pseudointellettuali, agli pseudo artisti, dove sotto la pretesa di rottura, sotto il cui presunto radicalismo e le presunte provocazioni semplicemente non hanno nulla: la visione dell’intervista con quella «che prende le capate contro il muro» che sente (appunto) «le vibrazioni», l’«artista che non deve spiegare un cazzo» oppure del dialogo sulla “vocazione civile” sostituiscono ogni altra parola da parte mia. Un’ultima cosa, un’ultima scena da brividi (per il sottoscritto ovviamente): Jep con la sigaretta stretta tra i denti e il largo sorriso da clown e nell’aria il remix di “A far l’amore comincia tu” che tuona dalle casse.
Voto di Marco Zaninelli: 9Voto di Antonella Buzzi: 7
Media voto: 8