In questo film di Paolo Sorrentino, ci ritroviamo spettatori della città di Roma in chiaro scuro e anche a colori, in alternanza più luminosa o più buia, con musiche celestiali o, per contro, popolar chic. Non è casuale, secondo me, ma è una scelta precisa per veicolare meglio il messaggio insito nel film. E quale città meglio si prestava come set? È in effetti perfetta per la sua indiscussa bellezza, nella quale convivono tutti. E in particolar modo in questo film dove lo sguardo si sofferma su tutte le sfumature della spiritualità (dall’alto prelato alla suora missionaria povera e centenaria) a quelle poste all’altra estremità della mondanità a tratti eccessiva, a tratti annoiata, intellettualoide, un po’ ricca e nobile e un po’ alternativa.
Nulla di nuovo sul fronte umano, e in questo cloasma si muove lo scrittore in crisi. E alzi la mano chi non è mai stato in crisi, anche se per un breve tempo. In un post di qualche mese fa avevo scritto ad un certo punto: Ci salverà la bellezza. Anche il protagonista, che è sempre alla ricerca de La grande bellezza, nei tempi, nei modi e nei luoghi sbagliati, torna alle origini, dopo che gli viene detto da una persona illuminata di non dimenticare le radici.
In questo film visionario, a tratti un po’ lento per ben trasmettere l’inutilità di una vita vacua e ripetitiva, vi ci troverete tutti, che piaccia o no. Ricostruirete pezzo a pezzo un percorso interiore che ci accomuna.
E in questa scena si rafforza una certezza: ricordiamoci di noi stessi, da dove veniamo per decidere bene dove andare, in qualsiasi situazione. E l’arte, la poesia e la bellezza portiamola con noi. Sempre. Altrimenti finiremo giocoforza come lo scrittore protagonista, profondamente sterile e stancamente ripiegato su sé stesso.