Siccome crediamo nella validità della stringatezza, anche se la possibilità di sviscerare La grande bellezza ci alletta, e siamo sicuri che riporteremmo alla luce un film molto più preciso, quadrato, rigoroso di quello descritto da molti eminenti commentatori, forniremo quattro motivi, fra i molti possibili e rintracciabili, per dire che si tratta di un film importante e che rimarrà.
Primo motivo: la Roma tinteggiata da Sorrentino è qualcosa a metà tra la Berlino de Il cielo sopra Berlino e la “Zona” di Stalker di Tarkovskij. Le architetture sembrano fondersi coi corpi che le attraversano, e i personaggi abitano davvero le scene.
Secondo motivo: la prima inquadratura di Toni Servillo, alias Jep Gambardella, inquadratura che peraltro fa il paio con l’ultima, vale da sola tutto il film. E ci ricorda in un attimo che Servillo non è un caratterista, ma un interprete di tale profondità che all’uscita dalla sala Jep è diventato un nostro vecchio amico.
Terzo motivo: nella Grande bellezza si affollano le immagini e le suggestioni tanto di Fellini, quanto di Von Trier e Aronofsky, quelle di Scola e della commedia intelligente e profonda, e anche certo Lynch inquietante ed ellittico.
Quarto e ultimo motivo: una Serena Grandi così “sfatta”, che esce da un’enorme torta e sniffa di nascosto in cucina, aspettavamo da tanto di vederla.
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