La Grande Bellezza: Dolce Vita Che Te Ne Vai

Creato il 24 maggio 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Cristian Sciacca 24 maggio 2013

Il primo termine che viene in mente durante e dopo la visione dell’ultimo film di Paolo Sorrentino, La grande bellezza, presentato in pompa magna all’ultimo Festival di Cannes, è “ambizione”. Raramente infatti capita di assistere ad un’opera dai propositi così alti (già nel titolo) e allo stesso tempo girata con una tale perfezione formale e stilistica: un’impeccabilità pretesa e ottenuta per (quasi) tutti i centoquarantadue minuti di durata. Basta la scena iniziale, il turista che sviene davanti all’infinita e violenta bellezza del panorama estivo di Roma, per capire che Sorrentino punta all’Everest. Attraverso l’occhio clinico e spietato del suo personaggio, Jap Gambardella (un infinito Toni Servillo), napoletano trapiantato a Roma, scrittore in gioventù di un best seller (L’apparato umano, nonché titolo iniziale del film, poi sostituito) e successivamente convertitosi alla mondanità, il regista partenopeo fotografa la realtà capitolina (e nazionale) fatta di civiltà decadente e umanità alla canna del gas. Viene cantato il nulla che, come la neve di James Joyce, sotterra tutto e strangola tutti nel suo vortice di disperazione. Come il nulla, il simbolismo la fa da padrone: ogni singola scena, ogni atto, compiuto e mancato, è un simbolo. Un simbolo di un’epoca in cui non ci si può più permettere il lusso di prendersi sul serio, un’era in cui il contadinotto Romano (Carlo Verdone) prima sogna e poi viene deluso da Roma e dalla sua aurea mediocritas. “Delusione” è altra parola chiave del film: per esorcizzarla Jap dirà «è solo un trucco», un po’ come il Comico di Watchmen di Alan Moore diceva «It’s all a fuckin’ joke». Parlare del nulla, esprimendo il tutto: un’impresa titanica.

Il secondo pensiero che La grande bellezza invoca è “storia del cinema”. Inevitabile l’eco felliniana, ingombrante nel titolo e nel soggetto, ben presente nello svolgimento: dal mostro marino ai sogni a sfondo religioso e l’incomunicabilità (8 ½) fino al trionfo dell’umanità deforme nelle serate romane (di satyriconiana memoria) a base di drink, droga e trenini. In mezzo, una spruzzata di grottesco nei ritratti borghesi ed ecclesiastici alla Buñuel e un richiamo alla Bellissima figlia della Magnani nella brutale sequenza della bambina costretta a fare l’artista. Senza perdere nulla però della propria autosufficienza: tanto che Sorrentino, nel personaggio del latitante Moneta, ci mette un po’ del suo Titta Di Girolamo. Dal confronto (cercato e voluto) con i mostri sacri, la pellicola di Sorrentino rischiava di uscirne con le ossa rotte, invece resta in piedi e delega il suo giudizio definitivo ai posteri.

La terza sensazione, ovvero quella che ti sale dentro qualche ora dopo la visione, è che non bisogna aspettare il giudizio dei posteri per considerare La grande bellezza per quello che è: il miglior film italiano di questo inizio millennio. Il linguaggio poetico che al tempo stesso distrugge l’innocenza della poesia. Il contrasto fra lirica e dance, Cristi dipinti e iPhone, sacro e profano, correva l’enorme rischio di risultare kitsch, grossolano, invece è struggentemente sublime, mai irriverente o peggio ancora didascalico. È una fotografia panoramica, un segno dei tempi che corrono, un manifesto di “nuovo neorealismo”. È anche un atto di forza non indifferente dal punto di vista tecnico: aiutato dall’impeccabile fotografia firmata dal maestro Luca Bigazzi, Sorrentino orchestra come meglio non si potrebbe un enorme coro di voci e volti, amalgamando incisivi primi piani (ne regala uno da ricordare alla Ferilli) e maestosi piani sequenza, cammei stranianti (Venditti e l’Ardant) e “vecchie glorie” alla frutta (Serena Grandi); quest’ultime, insieme ai nobili a noleggio e più di tante altre cose, autentico impietoso specchio dei tempi.

È vero che possono risultare indigesti il compiacimento stilistico o la troppa carne al fuoco: nel calderone c’è anche il contrasto morte della religione / persistenza della fede. Si ha però la sensazione che anche questi elementi facciano parte del gioco. Un gioco in cui Sorrentino mette lo spettatore nella posizione più scomoda possibile: quella in cui bisogna aguzzare la vista e tendere le orecchie, tenere acceso il cervello e ancor di più il cuore. Tutto questo per accogliere la rivelazione, che non arriva dal cielo, ma dalla memoria. La memoria di un istante in cui la grande bellezza si era compiuta, nella sua ineffabile e devastante irripetibilità.

Fotografie di Gianni Fiorito


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