La grande bellezza è il film italiano in corsa agli Oscar del prossimo anno. Cosa che non significa sia già in nomination. Significa solo che è la pellicola scelta a rappresentare il nostro paese e se la dovrà vedere con ben altri 75 concorrenti in arrivo da tutte le parti del mondo. Potete leggere l’elenco completo dei film in lizza qui.
Ci troviamo dunque di fronte a una copia spudorata? No, per niente. “Allora, deciditi: è come La dolce vita o non è come La dolce vita?” L’ispirazione è la stessa, il talento registico è simile, lo sfondo è sempre Roma, il protagonista è anche in questo caso un giornalista mondano barra scrittore radical-chic. Eppure è tutto diverso. Della splendida Roma anni Sessanta qui è rimasta soltanto un’ombra scura. Un riflesso appannato. Un’immagine distorta e grottesca. E il protagonista è un vecchio. Questo non è un paese per giovani. Non è più il paese del giovane Marcello Mastroianni/Marcello Rubini. Non è più il paese del “Marcello, come here.” Oggi è il paese da cui scappare. È il paese del “Marcello, go away.”
"Ah Sabrì, ma quelle chiappe te le han fatte gli artigggiani della qualità?"
La grande bellezza sta a La dolce vita come l’Inferno sta al Paradiso. Il giornalista specialista in intrattenimento, cultura, gossip e frivolezzeChi a me personalmente non ha mai deluso invece è Paolo Sorrentino. Già con il suo film d’esordio L’uomo in più diceva tutto: “A vita è ‘na strunzata”. Si sarebbe potuto fermare lì e tanto ormai la più grande verità di questo mondo l’aveva già rivelata. Invece no, è andato avanti e c’ha regalato altre pagine di poesia, le più belle provenienti dal libro del cinema italiano recente. Le conseguenze dell’amore è l’anti romcom per eccellenza; L’amico di famiglia è lo scatto perfetto sull’Italia annichilita di oggi; Il Divo è un film politico di raro coraggio che in pochissimi da noi avrebbero avuto il coraggio di fare ma anche il ritratto, l’ennesimo nel suo cinema, di un uomo triste; This Must Be the Place è in apparenza la parabola discendente di una rockstar sul viale del tramonto, in realtà è la sua pellicola più ottimista. La grande bellezza da un punto di vista registico è il suo punto più alto. Se i suoi precedenti erano girati da fenomeno, questo è girato da Dio. Roba che il Terrence Malick di The Tree of Life non è poi così distante. Le sequenze fluiscono l’una nell’altra in una maniera naturale, con una cura nelle riprese e un lavoro di montaggio da restare estasiati nel senso religioso del termine. Le scene scorrono con una musicalità che nel cinema italiano non si vede. Mai. Sorrentino trasforma “Far l’amore” e “Mueve la colita” in sinfonie. Fa diventare le ridicole coreografie e i pietosi balli delle discoteche bene di Roma pura poesia per immagini.
ATTENZIONE SPOILER
"Quella cosa lì è Serena Grandi?"
La parte finale di questa grande bellezza però no. Non m’è andata giù del tutto. Non sono riuscito a digerirla completamente. Il film è molto giocato, fin dall’inizio, sul contrasto tra sacro e profano. La presenza religiosa aleggia forte lungo tutta la visione, d’altra parte parlando di una città come Roma, la vera grande protagonista della pellicola, era inevitabile. Però “La Santa”, Suor Maria, la mummia di 104 anni interpretata da Giusi Merli (che spero per lei in realtà abbia qualche anno di meno), una figura che diventa centrale nella parte conclusiva, ma era proprio necessaria? La Santa ricorda a Jep che le radici sono importanti, gli fa ritrovare l’ispirazione perduta per ricominciare a scrivere, lavorare al suo secondo romanzo a decenni di distanza dal primo. Un’illuminazione divina, con tanto di apparizione di uno stormo di fenicotteri, che appare piuttosto forzata. Una grande bellezza tanto ricercata che paradossalmente fa perdere fascino a un film fino a quel momento bellissimo. Mi è sembrato che Sorrentino con questa svolta religiosa abbia cercato il colpo a effetto finale, quello che rendeva La dolce vita il capolavoro che è, con quella sua conclusione meravigliosa. Un colpo non riuscito che si trasforma in un clamoroso autogoal, una sbandata come l’inconcepibile finale mistico di Lost. Roba da far venir voglia di prendere a schiaffi Sorrentino, non per fargli del male, ma per farlo rinsavire. L’alternativa meno violenta è chiedergli: “Perché l’hai fatto, Sorrentì? Perché c’hai messo dentro ‘sta Santa?” Al che lui, con tutte le ragioni del mondo, potrebbe rispondere come fa una performer intervistata da Jep: “Io sono un’artista. Non ho bisogno di spiegare un cazzo.”I 10 minuti di delirio finale, come per Lost, lasciano disorientati però non cancellano del tutto quanto di buono fatto vedere prima di allora. Con una parte conclusiva così, più che La grande bellezza resta la grande incompiutezza. Allo stesso tempo, i film di Paolo Sorrentino continuano a essere una delle cose più belle che il nostro cinema ci regala da diverso tempo a questa parte. Dai tempi di Federico Fellini. La Roma de La grande bellezza non è più quella de La dolce vita. O forse sì. Peccato solo che sia rimasta la stessa nel senso che si è immobilizzata, vive con nostalgia in un glorioso passato ormai lontano. Una città, un paese in cui non c’è stato un ricambio generazionale e in cui Jep Gambardella altri non è che un Marcello Rubini invecchiato male. Questa non è la dolce vita. Questa è l’amara vita di oggi. (voto 8-/10)