Con l’Italia sono in conflitto da anni, obietto il sistema Italia e tutto ciò che concerne e distingue, a tutt’oggi, la cultura italiana.
In sostanza sono emigrato con la mente, non avendo avuto il coraggio di farlo col mio corpo.
È importante per capire le cause di questa recensione. Essa non è:
a) una marchetta
b) un omaggio al cinema italiano (che aborro)
c) un qualcos’altro legato alle critiche e ai pettegolezzi che di sicuro gireranno intorno a questo film, ma che io ignoro, perché come detto la scena italiana non mi interessa.
Essa, al contrario, è un omaggio al cinema di Paolo Sorrentino. E solo a lui.
Perché è vero che non bazzico la scena italiana, ma è anche vero che adoro il cinema. E qui, è necessario un altro chiarimento: delle passerelle, dei festival, delle starlette etc… non me ne frega nulla. Non è quello, il cinema.
Il cinema è l’oggetto-film. Pura forma e pura estetica, e il livello di coinvolgimento che riesce a darmi.
Pochi giorni fa, dopo aver visto La Grande Bellezza, ho scritto una fesseria sulla mia bacheca, su facebook, che è come imbrattare i muri: Sorrentino, con un paio di carrellate, ci ha fatto una Roma meravigliosa, lontanissima dalla banalità con la quale la capitale viene ritratta da tutti gli altri registi italiani.
Ed è vero.
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Italian film director and screenwriter Paolo Sorrentino (Photo credit: Wikipedia)
L’incipit de La Grande Bellezza è una cinepresa che scivola, che inquadra esattamente gli stessi dettagli e panorami che vengono inquadrati di solito, ma li rende vividi e vitali. Come? Col movimento.
E qui mi fermo, volendo fare di questo pezzo non una critica cinematografica in senso stretto, ma una riflessione.
Spesso mi sono soffermato a riflettere sul fatto che certi attori vengano identificati con certo cinema. Proprio di recente, con Gravity, pensavo al fatto che molte delle critiche piovute addosso a Cuaron erano attribuibili alla “cattiva fama” dei protagonisti, Clooney e Bullock, legati a doppio filo alla Hollywood commerciale.
Eppure, sempre e solo all’oggetto film si dovrebbe guardare.
E penso a Carlo Verdone, a Isabella Ferrari, Carlo Buccirosso e… a Sabrina Ferilli.
Sabrina Ferilli, un nome che mai avrei pensato di scrivere su queste pagine.
Ebbene, la considerazione che posso fare è questa: recitano.
Sono, tutti, a modo loro, perfetti in questo film. Perché finalmente è arrivato sotto mano un copione degno di questo nome, capace di farli tornare a sentire (e fare) gli attori.
Poi, è ovvio, la frase appena scritta si presta a essere smentita per ragioni diplomatiche. Ma non qui, qui non c’è la diplomazia, quindi posso dirlo: Paolo Sorrentino ha preso un pugno di attori italici che devono la loro fama a certo tipo di pellicole e ne ha (ri)fatto attori e attrici.
E la cosa mi fa un piacere immenso, oltre a mettermi malinconia, perché allora è vero che le cose stanno così, come ho sempre pensato: non è che gli italiani abbiano dimenticato come fare cinema. Semplicemente, e tristemente, hanno rinunciato per cause di forza maggiore.
Ovvero quella decadenza morale e culturale che è ritratta in modo magistrale ne La Grande Bellezza. Quasi un canto del cigno sul nulla della società italiana coeva.
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Italien actor and theatre director Toni Servillo (Photo credit: Wikipedia)
Non ho ancora citato Toni Servillo, il protagonista. E non l’ho fatto perché lui, esattamente come il regista Sorrentino, lo considero uno dei buoni. Ha sempre recitato e l’ha fatto con bravura immane. Per cui, poco da aggiungere sulla sua performance, se non che bisogna vederlo in altri film. È obbligatorio.
Sorrentino quindi scrive, insieme a Umberto Contarello, e dirige un’ode al nulla. Giocando coi riferimenti a Flaubert. E la scrive affidandone il canto alla categoria che più di ogni altra, oggi, rappresenta la palude culturale in cui affoghiamo, uno SCRITTORE, tale Jep Gambardella (Toni Servillo). Che è uno scrittore per titolo, per status, più che per mestiere. L’uomo da un solo libro, che ha vinto il Bancarella e non ha più scritto nulla per i successivi quarant’anni, diventando, però, non si sa come, ricco, famoso e piacente: un MONDANO, dice lui. Una creatura pagana che ha il potere di fare e disfare le feste del patriziato romano. Decadenti e ricchissime cariatidi, deturpate da silicone e chirurgia estetica, devastate dall’età che avanza, e assolutamente vuote.
Aspetto, quest’ultimo, che getta una luce tragica sul film, che è rappresentazione della follia umana. Che non è, come si potrebbe pensare, o non è più (forse non è stata mai, nel nostro caso), lotta, ma il lasciarsi vivere, non avendo mai avuto la forza e l’orgoglio nemmeno di provare a cambiare le cose.
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English: Sabrina Ferilli Italiano: Sabrina Ferilli (Photo credit: Wikipedia)
Quel manipolo di sciocchi festaioli e intellettuali d’atteggio ivi ritratto non ha scampo. Non parliamo neppure, quindi, di speranze di riscatto. Quelle ormai sono marcite da un pezzo.
Costoro sono come i vampiri parigini della Rice (e un po’ ci assomigliano, in effetti, coi ceroni in faccia): sciocchi, decadenti, noiosi e inutili. Che improntano le rispettive esistenze all’immagine di sé che riescono a trasmettere al prossimo. Li vediamo tutti i giorni, nel mondo reale, ne siamo circondati, fino a quando, un giorno che spero non arriverà mai, ne saremo contagiati, diventando come loro, dei fantasmi.
Non importa che sia la verità. Conta solo la percezione, per costoro.
Ecco il motto dell’Italia attuale: fondata sulle chiacchiere.
Ed ecco la poesia di Sorrentino, che applica alle chiacchiere un’estetica potente, mettendola a confronto diretto con la devozione della fede e con il ridicolo di quella stessa fede, e riesce a suscitare un malessere fortissimo nello spettatore. Almeno in quegli spettatori che ancora non sono stati assimilati dal nulla che fagocita ogni cosa in questo stupendo (in un tempo remoto) paese.
Sorrentino ci omaggia di una Roma notturna, liquida e aliena, che ospita esistenze arrese confondendole con visioni barocche e illusioni, alla ricerca di una Grande Bellezza che non c’è più, per descrivere la quale, mancano ormai le parole.
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