La Grande Madre

Creato il 24 settembre 2015 da Alessioscalas

Mi capita spesso di chiedermi cosa, al giorno d’oggi, significhi veramente sentirsi madre.
In una società in cui la donna ha ormai perso terreno “fertile” e spesso anche stima di se stessa, la parola madre minimizza sovente il reale significato intrinseco del termine, sostituendolo con l’unica popolare concezione di “donna atta a procreare”.

C’era un tempo in cui la donna diventava madre al di là del fatto che partorisse. La sua dedizione verso la comunità e la solidarietà, tutta al femminile, era già di per se un atto materno, così come lo era occuparsi del benessere della famiglia e dei suoi componenti, che fossero figlie, nipoti, madri, nonne, mariti o parenti.

In Sardegna la donna matura era spesso guaritrice, detentrice di tradizioni e saperi da custodire gelosamente e da tramandare ad altre donne più giovani, le prescelte, seguendo così una linea temporale tra passato e futuro propria di chi “partorisce”. Queste madri erano quindi considerate maestre (Jana Maista), chiamate anche Zie, donne anziane, sagge, che praticavano Sa Maxia (la medicina) e che, a prescindere dal fatto che fossero sposate o che avessero figli, avevano il ruolo di istruire le donne più giovani verso doveri, faccende “femminili”, pratiche curative eseguite con scrupolosa ritualità e verso i rimedi di cui la comunità di frequente si avvaleva. Ed è proprio così che nascevano le future Janas, figlie della Grande Madre. Usi e costumi di un tempo ruotavano quindi intorno alla reminiscenza di un culto ancestrale, che affondava le proprie radici sin dalla notte dei tempi: il culto verso la Grande Madre.

La dea Madre/Jana/Dana era venerata in tutta l’Europa Megalitica, come anche in Sardegna, dalle “genti di Dana” conosciuti anche come Popolo di Dana, Tribù di Dan, SharDana, DanMark, Thuata de Danann, civiltà antiche che avevano un credo comune e che costruivano luoghi sacri in suo onore.
La costruzione di tali megaliti, come anche quella di nuraghe e di pozzi sacri, era quindi incentrata sulla credenza e il rispetto di tale figura femminile, ritenuta sacra proprio per la sua virtù di creatrice e dispensatrice di vita. Ma la natura femminile, se da una parte era considerata emblematica per questo suo grande potere fecondo, d’altra parte era anche frutto di una dualità che sottolineava l’eterna contrapposizione tra bene e male, tra luce e oscurità, una parte volubile da aggraziarsi proprio tramite rituali propiziatori di fertilità e abbondanza. Anche per questo motivo era consuetudine, nei luoghi di culto a lei dedicati, lasciare statuine votive in offerta e incidere, nelle pareti di quei luoghi di energia, simboli legati per esempio al significato ancestrale dell’acqua che rappresentava la vita e la rinascita, rievocazione appunto del liquido presente nell’utero materno.

Dopo l’arrivo del Cristianesimo e con il diffondersi del cattolicesimo, in Sardegna le donne anziane e sagge, dapprima considerate sacerdotesse e guaritrici, vennero demonizzate e allontanate, considerate streghe, bruxias. In questo periodo storico, di buio e inquisizione, nacquero anche molte delle leggende popolari su mostri e streghe della Sardegna, rivisitazioni di credi più antichi aborriti per scoraggiare la pratica della “magia” naturale. L’antica religione venne così rimpiazzata e le tradizioni e i saperi sostituiti o mascherati, con nomi più consoni alla nuova religione. Le antiche madri, guide e curatrici, furono costrette a nascondere la propria vocazione, tramandarla in modo furtivo, chiamate di nascosto dalla comunità che comunque, in verità, non aveva mai smesso di credere nel sacro potere della Jana Maista.  Queste tradizioni sono giunte fino a noi, rivisitate a volte, ma mai dimenticate.

Oggi, in un tempo in cui la consapevolezza delle proprie origini sta diventando cosa sempre più rara e, purtroppo, interesse di pochi, le nuove Jana figlie della dea si possono riscoprire laddove l’occhio non è capace di notarle, celate nelle donne comuni della porta accanto.

Donne speciali perché madri di idee e creatrici di sogni. Donne che partoriscono ogni giorno il meglio che la vita può concedergli. Madri di speranza e amore. Donne creative, coraggiose, pazienti e solidali. Donne che hanno un dono: essere madri del mondo.

Jana Sylvié

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