La grande monnezza (bis)

Creato il 27 febbraio 2014 da Media Inaf

Cosa può succedere se un piccolo frammento colpisce uno strumento in orbita terrestre.

Era il 1957 quando un pallone d’alluminio con quattro lunghi baffi guadagnava l’orbita terrestre diventando il primo satellite artificiale della storia (dentro una semplice radio che faceva bip bip): lo Sputnik. Da allora sono tanti i satelliti ad essersi infilati più o meno ordinatamente nell’orbita terrestre. Alcuni di quei veicoli sono rientrati alla base, come previsto, al termine della missione. Altri continuano a vagare sopra le nostre teste ormai fuori controllo.

A oggi esiste un solo catalogo di questo complicato traffico atmosferico. Ed è quello mantenuto da JSpOC, il Joint Space Operations Center del Ministero della Difesa statunitense. Informazioni classificate – perché sono molti i satelliti lanciati a scopo militare – e tuttavia generosamente messe a disposizione dalla Difesa USA alle agenzie spaziali internazionali che ne fanno richiesta.

Lo Space Surveillance Network della NASA e lo Space Situational Awareness di ESA che dovrebbero svolgere il compito di vigili urbani nelle intricate autostrade che si snodano sui cieli terrestri possono quindi fare affidamento esclusivamente su dati che abbondano di rumore. JSpOC, come l’oracolo di Delfi, mette a disposizione informazioni che rendono impossibile ricostruire il dato originale. Tanto che anche la mera stima degli oggetti orbitanti diventa un azzardo.

“17 mila oggetti sopra i 10 cm di diametro è il conto che possiamo fare basandoci su quanto riusciamo a vedere nella porzione di cielo prossimo alla Terra”, ci spiega Giovanni Valsecchi dell’INAF – Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali di Roma. “Per individuare un oggetto ci affidiamo ai radar, con cui riusciamo a vedere più o meno chiaramente fino ai 2000 km di altitudine. Per quel che sta oltre ci possiamo aiutare con i telescopi ottici. Parliamo però di oggetti di cui non conosciamo né albedo, né materiale di costruzione”, osserva Valsecchi. “Quando nel 1999, con Paolo Farinella e Alessandro Rossi, individuammo un pericolo reale di collisione per la costellazione Iridium, la comunità scientifica sembrò non dare peso alla cosa. L’incidente del febbraio 2009 fra uno dei satelliti commerciali della costellazione e il satellite russo Cosmos 2251 ci ha mostrato che il problema è anche più grande di quanto avevamo immaginato. E anche oggi che conosciamo meglio il fenomeno dei detriti spaziali abbiamo ancora troppi pochi dati per poterlo valutare”.

200 esplosioni orbitarie, 17 mila piccoli frammenti. Ecco il risultato di una cattiva gestione della viabilità spaziale. Ogni scheggia, anche se misura appena qualche centimetro, può diventare un pericoloso proiettile che corre a velocità di km/s.

Oggi lo Space Situational Awareness – il programma opzionale dell’ESA concepito con lo scopo di svolgere servizi di sorveglianza e monitoraggio dei detriti spaziali e dei Near Earth Objects (NEO) – è in fase di implementazione. Lanciato ufficialmente il 1° gennaio del 2009 sulla spinta di Francia, Germania e Spagna si è in parte arenato a seguito dell’assenza di un accordo con la European Defence Agency in materia di classificazione dati. L’aver impostato un programma senza la necessaria attenzione alla sicurezza non è stato un errore perdonabile e nel 2012 ha provocato l’uscita di Spagna e Francia dall’impegno opzionale con ESA.

Nel frattempo il numero di sinistri spaziali è salito a duecento. Serve ben poco ricorrere a moduli di constatazione amichevole per esplosioni orbitarie che si devono evitare. Specie se c’è intenzione di conservare liberi slot orbitali per nuove missioni. E tanto più se si vogliono ridurre rischi di collisioni e danni a costose strumentazioni. Ma i 55 milioni di euro stanziati da ESA nel 2009 e i 75 milioni arrivati nel 2013 sembrano ben poca cosa di fronte alle risorse allocate da NASA sulla questione detriti.

Certo potrebbe anche non essere una semplice questione di denaro. E qui entra in gioco l’Unione Europea con un’interessante proposta di legge che sarà votata il prossimo aprile. “Quello in discussione al parlamento europeo è il programma SST – Spase Surveillance and Tracking – che prevede se approvato uno stanziamento di 70 milioni di euro in 7 anni per la realizzazione di un servizio di sorveglianza dei satelliti e più in generale dei NEO”, ci spiega Claudio Portelli dell’Agenzia Spaziale Italiana, responsabile per i detriti spaziali e il controllo degli asteroidi. “L’idea è che ogni Stato membro possa contribuire con i dati in suo possesso e riguardanti il traffico dei NEO. Tutte le informazioni, valutati preliminarmente da centri di competenza nazionali militari per la classificazione dei dati, dovrebbero poi confluire allo European Union Satellite Centre in Spagna cui spetterà il compito di filtrarli, processarli, e renderli disponibili all’operatore spaziale di turno che ne ha bisogno”.

Un progetto ambizioso, ben allineato con una politica tutta europea di partecipazione comunitaria, distante dalle logiche statunitensi di JSpOC, in mano alla Difesa USA.

Il contributo italiano a SST? Potrebbe passare in larga parte dalle strutture INAF, che hanno strumenti e carte adatti allo scopo. Un accordo siglato dall’Istituto Nazionale di Astrofisica con l’Aeronautica Militare ha già previsto una fase di test per un blocco di radar bistatici con la Croce del Nord di Medicina in ricezione e un TX dei militari in trasmissione dalla Sardegna per illuminare una serie di oggetti. E proprio questa settimana una delegazione dell’Aeronautica Militare ha fatto un sopralluogo agli impianti del Sardinia Radio Telescope di Cagliari per valutare nuove forme di collaborazione. A questo si aggiunge il supplemento di informazioni dei telescopi ottici già esistenti e su cui INAF può fare affidamento, mettendo l’Italia in una condizione di forza nel garantire un servizio in SST.

Una partita tutta da giocare, insomma.

Per saperne di più: leggi la prima puntata di questo speciale 

Fonte: Media INAF | Scritto da Davide Coero Borga


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