La vera scommessa in questo caso è della produzione nei confronti del regista Adam McKay (scelta rivelatasi vincente), che andando “contro” ai canoni più classici del racconto cinematografico riesce a rendere interessante una storia di cui si conosce l’epilogo dal principio e allo stesso tempo legata a qualcosa di immateriale. La regia a volte deve mentire per raccontare la verità, per renderla interessante, fruibile a chiunque, ma questo aspetto sembra essere molto chiaro al regista americano, al punto che il ritmo nervoso condito da intermezzi in cui personaggi (che non fanno altro che interpretare se stessi, gli unici che non mentono in tutto il film) al di fuori della storia creano siparietti didattici per spiegare terminologie tecniche, oppure dei protagonisti stessi che dialogano direttamente con lo spettatore (una presa di posizione importante quest’ultima rispetto al corpo cinematografico), sono elementi che contribuiscono a creare la menzogna più grande, in pratica che tutto quello che si sta guardando sia pura illusione, quando invece sono fatti reali e soprattutto recenti.
Sarà solamente nella parte finale in cui il personaggio interpretato da Steve Carrel dovrà scegliere se accettare il richiamo del denaro, o rifiutarlo celebrando i principi personali (unico personaggio di cui conosciamo una parte di passato), solamente al termine di un tour de force nella bolla della finanza che lo sguardo verrà riportato alla realtà, nel momento decisivo della resa dei conti la risata amara si spegne lasciando spazio al pensiero, alla logica e soprattutto alla certezza che è solamente questione di tempo e poi tutto si ripeterà nuovamente in quanto il sistema stesso ha la necessità di ripartire, di essere resettato, come dipenderà tutto dalla nuova variabile che farà esplodere la nuova “bolla” finanziaria. La cosa più ironica del film di McKay è che non fa finta mai, nemmeno per un secondo, di essere quello che non è, ossia una commedia.