La Groenlandia chiude la porta alla Ue e non si lascia sfruttare

Creato il 16 marzo 2013 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Si dice che quando approdò con la sua famiglia per sfuggire a un’accusa di omicidio, fu Erik il Rosso a chiamarla Grønland, terra verde, perché allora, nel periodo caldo medievale, l’isola non era coperta di ghiacci, ma invece erbosa e lussureggiante, tanto che gli scavi hanno portato alla luce tracce di banchetti luculliani alla corte di Erik, con carcasse di pecore e bovini e si sa che lui si vantava delle sue stalle e del suo bestiame.

Ora che una primavera malata del nostro scontento riscalda il pianeta, scioglie i ghiacci e ci riporta a un moderno periodo caldo medievale, la Groenlandia non è più impenetrabile alle scorrerie dei pirati delle multinazionali o insondabile alle loro prospezioni. E perfino gli Inuit, i nativi di quelle regioni insieme agli eschimesi, si erano dimostrati permeabili alle magnifiche sorti e progressive dell’ideologia neoliberista, alle illusioni di uno sviluppo accelerato, alle lusinghe di una ricchezza frutto dissennato dei loro giacimenti.
Da 4 anni uno sconcertante – ma non poi troppo, ne abbiamo viste di mutazioni- leader “comunista” Kuupik Kleist, a capo dell’acrobatico partito della sinistra indipendentista Inuit Ataqatigiit, (Comunità del popolo), aveva aperto le porte e le viscere dell’isola verde alle compagnie minerarie straniere. A far gola alle multinazionali i giacimenti di minerali, gas e soprattutto di terre rare, materiali ricchi di promesse per le loro performance nelle più svariate applicazioni tecnologiche.

E a conferma della proverbiale tradizione di accoglienza – leggende mai confermate dicono che le grazie delle padrona di casa o di igloo venissero munificamente messe a disposizioni dei graditi e fortunatamente rari ospiti – oltre a stringere patti di ferro con l’Alcoa e la London Mining, l’Inuit Ataqatigiit aveva siglato un’alleanza che finora pareva inattaccabile, con l’Ue, per “facilitare l’ingresso dell’industria europea alle materie prime a un prezzo accessibile”. L’intento era quello di favorire la rimonta dell’Europa, e in particolare Danimarca, Germania, Gran Bretagna, Repubblica Ceca, finora battute dalla concorrenza delle compagnie canadesi, australiane e, recentemente, cinesi. E dire che la Groenlandia, che faceva parte della Comunità Economica Europea, come territorio danese dal 1973, nel 1985 decise di uscirne con referendum. Le bastava il tutoraggio della Danimarca che, malgrado la sospirata acquisizione dell’l’autogoverno (hjemmestyre), concesso nel 1979, mantiene ancora il controllo su finanze, politica estera e difesa e provvede a un sussidio annuale (576 milioni di dollari l’anno, circa 3,4 miliardi di corone, pari a circa il 30% del PIL).

Ma gli elettori presentatisi il 12 marzo per rinnovare l’Inatsisartut, il parlamento autonomo, nell’unico seggio collocato nel centro della capitale, Nuuk, una città di 15mila abitanti, con solo due semafori, hanno alzato la testa per dire no allo sfruttamento delle grandi ricchezze del sottosuolo della regione, presentato come unica e inevitabile occasione di crescita e di sviluppo dell’occupazione per i 57 mila abitanti dell’isola più grande del mondo, una delle solite pompose menzogne planetarie, visto che le compagnie già presenti e quelle che premono alle porte, arrivano impiegando manodopera rigorosamente extra-continentale. E hanno attribuito la vittoria a una donna, a capo del Siumut (Avanti) che rivendica l’affrancamento dell’isola dal “liberismo riformista” di Kuupik Kleist, con la promessa di introdurre royalties sulle risorse, di imporre limiti severissimi alla penetrazione delle compagnie straniere e di adottare criteri rigidi per concessioni minerari ed estrattive, ispirati a requisiti di carattere ambientale.

La nuova e prima premier donna della Groenlandia ha di fronte un bel problema: dovrà trovare un alleato per costituire una coalizione di governo e per proseguire sulla strada di una nuova indipendenza e della difesa dell’occupazione interna. Guarda un po’ come in un tema già scritto i progetti di “cooperazione”, primo tra tutti quello per l’estrazione dello zinco ( un valore di 5 miliardi di corone danesi, 874 milioni di dollari), beneficiano infatti di agevolazioni riguardanti l’impiego di lavoratori stranieri, manodopera a buon mercato, soprattutto cinese, che circola nei territori del mondo come un esercito indifeso di nuovi schiavi.
Abbiamo tifato Islanda, adesso possiamo fare il tifo per la battaglia di dignità e autodeterminazione della Groenlandia. Pare che ci siamo condannati a guardare senza partecipare del riscatto di altri, come se l’amor proprio, la responsabilità, l’onore di popolo e la sovranità ci fossero negati. Ricominciamo a meritarceli.