La guerra del gas: la Bulgaria al centro del braccio di ferro tra Russia e UE

Creato il 09 settembre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Giuseppe Consiglio

La coreografica danza delle reciproche sanzioni tra Russia e UE, corollario della conclamata guerra che da mesi seguita a funestare l’Ucraina, non poteva che coinvolgere la realizzazione del South Stream. Il gasdotto che dovrebbe raggiungere l’Europa Centrale consentendo al gas russo di bypassare l’Ucraina è un progetto di rilevanza strategica cruciale per entrambe le parti, paradigma dell’inestricabile selva di interessi che lega indissolubilmente – almeno per ora – Mosca a Bruxelles. E nella guerra (economica) delle sanzioni incrociate – non ultimo il pacchetto approvato la sera dell’8 settembre, che coinvolge le maggiori aziende petrolifere russe, ma messo in stand-by – la partita del South Stream assume contorni sempre meno definiti che sfumano nella nebulosa dei contrapposti imperativi di sicurezza energetica e delle norme del diritto europeo ed internazionale.

Il riacuirsi delle tensioni diplomatiche tra la Commissione ed il Cremlino ha portato dunque ad un nuovo stop dei lavori del South Stream da parte delle autorità bulgare, costrette ad interromperne la costruzione per via delle pressioni sempre più insistenti di Bruxelles. Inevitabilmente, il blocco dei cantieri in Bulgaria, il primo Paese che il gasdotto incontra dopo aver attraversato il Mar Nero, non potrà che compromettere o almeno ritardare l’implementazione del progetto che entro il 2018 veicolerà annualmente in Europa 63 miliardi di metri cubi di gas naturale pari al 35% complessivo delle forniture russe. Gli interessi energetici bulgari e di buona parte dell’Europa Centrale e Meridionale, rischiano in sostanza di esser sacrificati sull’altare di una guerra economica che l’UE sembra intenzionata a portare avanti contro la Russia per costringere Putin ad allentare la presa su Kiev. Una guerra tutt’altro che priva di conseguenze per i Paesi dell’Unione.

La Commissione dispone certamente di parecchi strumenti persuasivi per indurre Sofia ad interrompere i lavori pregiudicando i suoi stessi interessi di sicurezza energetica. Un’analisi di questi strumenti, di come l’UE li utilizzi e sulla base di quale strategia geopolitica, risulta decisiva per comprendere il ruolo di tutti gli attori coinvolti: Mosca e Bruxelles, Kiev e Sofia, Gazprom e Washington.

Un interrogativo potrebbe esser quello legato alle tempistiche con cui la Commissione ha minacciato l’avvio di una procedura di infrazione contro la Bulgaria per via delle modalità di assegnazione degli appalti che pare contravvengano alle norme comunitarie: se l’obbiettivo di alzare il livello dello scontro con il Cremlino rallentando la costruzione del South Stream sembra essere la ragione principale delle pressioni della Commissione su Sofia, agitare lo spauracchio della guerra ucraina per contenere i russi potrebbe in realtà celare l’intenzione di Bruxelles di mettere pressione sulla Bulgaria forse troppo accondiscendente nei confronti di Mosca da cui dipende per gli approvvigionamenti energetici. Il risultato in entrambi i casi è identico e porta al blocco dei lavori, ma il punto di vista cambia decisamente.

Fonte: South Stream

Il progetto South Stream – Nato dall’intesa tra Gazprom ed ENI, il South Stream si inquadra in un più ampio accordo strategico siglato dai due colossi nel 2006 che prevedeva un ingresso dei russi nel mercato della vendita e della distribuzione in Italia e per ENI la possibilità di avviare progetti di ricerca ed estrazioni in Siberia. Il principale risultato sarebbe stato una maggiore sicurezza negli approvvigionamenti energetici dell’UE anche in ragione di una crescente richiesta di gas naturale prevista negli anni immediatamente successivi all’accordo.

Il 18 gennaio 2008, ENI e Gazprom, costituivano la società South Stream AG al 50%.

Progettato allo scopo di aggirare i rischi legati ad un transito del gas russo dall’Ucraina, il South Stream ha sin dagli inizi dovuto subire la malcelata e talvolta miope ostilità della Commissione rinvigorita dal precipitare degli eventi culminati con la secessione della Crimea e la guerra civile in Ucraina. Animosità che appare ancora più evidente se rapportata all’atteggiamento accomodante avuto nei confronti del TAP – Trans-Adriatic Pipeline, il gasdotto trans-Adriatico che connetterà Grecia e Italia tramite l’Albania garantendo forniture di gas naturale azero dal Caucaso, dal Mar Caspio e plausibilmente dal Medio Oriente. L’azionariato di TAP si compone di SOCAR (20%), Statoil (20%), BP (20%), Fluxys (16%), Total (10%), E.ON (9%) e Axpo (5%). TAP è stato infatti dispensato da numerosi vincoli normativi e procedurali nel maggio del 2013 consentendo l’esenzione del principio di separazione di proprietà, derogando al principio dell’accesso delle terzi parti. Un atteggiamento praticamente opposto a quello tenuto nei confronti del South Stream che, mentre nei proclami veniva dipinto come un’infrastruttura essenziale alla quale gli Stati coinvolti hanno dato assoluta priorità, è stato nei fatti ostacolato dalla Commissione che non ha mancato di sottolineare come gli accordi tra i Paesi partecipanti disattendano la normativa comunitaria sotto l’aspetto della proprietà (il gasdotto appartiene ad un produttore) sotto il profilo dei criteri tariffari, oltre a non offrire accesso alle terze parti. La proprietà del South Stream però non appartiene interamente a Gazprom ed infatti, come anticipato, la quota offshore è detenuta da un consorzio composto oltre che da Gazprom (50%), anche da Eni (20%), EDF e Wintershall (15% ciascuno), mentre la parte onshore è costituita da joint-venture pressoché paritetiche tra Gazprom e le aziende di Stato dell’energia dei Paesi coinvolti.

Fonte: TAP

Arma di pressione – Che la Commissione osteggi il South Stream non è dunque una novità e la Russia ha già adito non solo alle autorità europee ma anche all’OMC – alla quale ha aderito nell’estate del 2012 – per chiedere la ripresa dei lavori. Il Ministro bulgaro dell’Economia Vasil Shtonov ha dovuto disporre dunque il nuovo blocco delle operazioni perché il consorzio costituito da Gazprom, Eni, EDF e Wintershall violerebbe le norme sui monopoli. Stando alle parole della vice Premier Zakharieva, però, le disposizioni del Terzo pacchetto energia sarebbero comunque rispettate garantendo la possibilità di accesso ad altre compagnie. Il punto cruciale sta nelle poco chiare procedure di gara che hanno designato di fatto la Russia come vincitore delle commesse per la realizzazione in territorio bulgaro del gasdotto. Sofia comunque ha precisato che ottempererà alle decisioni di Bruxelles e questo nonostante il vitale rapporto con la Russia. Le perplessità espresse dalla DG Energia della Commissione sulla conformità degli accordi intergovernativi siglati dal Cremlino con i Paesi attraversati dal gasdotto mostrano dunque l’insofferenza di Bruxelles nei confronti della nuova pipeline.

La Bulgaria dipende per l’85% dal gas russo e non può permettersi un’esclusione dal progetto, tanto più che l’Austria si è inserita nella trattativa candidandosi come terminale deputato alle forniture di gas dell’ Europa Meridionale per circa 30 miliardi di metri cubi all’anno. L’accordo, siglato lo scorso 24 giugno tra l’austriaca Omv e Gazprom, farebbe dunque dell’Austria – con l’hub di Baumgarten – il principale collettore di gas russo d’Europa (ridimensionando tra l’altro il ruolo della Slovenia e modificando il percorso che condurrà il gas all’Italia attraverso il Tarvisio).

La risposta di Mosca – La risposta di Mosca non si è però fatta attendere. Come affermato dallo stesso Putin nel corso di una conferenza stampa con le agenzie di stampa internazionali lo scorso 24 maggio, è infatti al vaglio la possibilità di estromettere del tutto la Bulgaria dal progetto coinvolgendo la Turchia. Le difficoltà sono però non indifferenti: il percorso del gasdotto sarebbe inevitabilmente più lungo se si dovesse optare per il passaggio dalla Turchia, che presenta inoltre una poco amorevole morfologia geografica. Il primo Paese europeo che incontrerebbe il South Stream nel suo percorso verso l’Austria e l’Italia sarebbe quindi la Grecia. Questa soluzione, nonostante la Turchia sia vista come un partner assolutamente affidabile, finirebbe con l’escludere anche Serbia, Ungheria e Slovenia. L’alternativa turca va dunque letta nella più ampia strategia di “intimidazioni” incrociate tra i contendenti.

Washington – Le ragioni del blocco dei cantieri in Bulgaria sono dunque principalmente di natura politica. Che la sospensione sia avvenuta dopo il vertice tra il Premier uscente bulgaro Oresharski e il senatore John McCain pronto a ribadire la necessità di contenere la presenza russa nel South Stream sembra un’ulteriore conferma della volontà di ostacolare Mosca e persuaderla della necessità di abbandonare le mire sull’Ucraina orientale.

La questione rimane comunque aperta. E probabilmente si risolverà con la riapertura dei cantieri. Finché l’Europa continuerà a dipendere da Gazprom e dalle forniture di gas russo, ogni tentativo di contenere la Russia facendo leva sulla questione energetica, non potrà che avere delle profonde ripercussioni sulla stessa UE. La soluzione pacifica del conflitto in Ucraina dovrà essere squisitamente diplomatica dal momento che i mezzi di pressione messi in campo tanto da Mosca quanto da Bruxelles non fanno che danneggiare i reciproci interessi. E se l’Europa dipende dal gas russo, Mosca non può permettersi di perdere i suoi maggiori committenti.

Il tentativo di ampliare il proprio “portafoglio clienti” ha spinto Mosca a siglare uno storico accordo con Pechino al culmine di una negoziazione durata un decennio. Sulla base del contratto sottoscritto nel mese di maggio, Gazprom fornirà 38 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno attraverso un gasdotto di 2200 km che connetterà i giacimenti siberiani alla Cina Orientale. Si tratta evidentemente di un segnale lanciato dai Russi all’Europa ma bisogna tener presente che l’accordo comincerà ad avere i propri effetti a partire dal 2018 e che comunque le forniture di gas oggetto del contratto saranno pari a metà dei consumi italiani, un volume certamente cospicuo ma ben lontano da quello dei Paesi europei considerati complessivamente.

* Giuseppe Consiglio è Dottore in Internazionalizzazione delle Relazioni Commerciali (Università di Catania)

Photo credits: AFP

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