La guerra di Shin'ya. Intervista a Tsukamoto

Creato il 07 settembre 2014 da Ifilms
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Scritto da Camilla Maccaferri
Categoria principale: Interviste
Pubblicato: 07 Settembre 2014
Venezia 71   Shinya Tsukamoto   Fires on the Plain  

Dopo il bel Kotoko, presentato nella sezione Orizzonti a Venezia 68, il regista giapponese Shin’ya Tsukamoto è tornato al Lido, questa volta in concorso, con Fires on the Plain (in originale, Nobi). Tratto dall’omonimo romanzo di Shohei Ooka, che già ispirò una pellicola di Kon Ichikawa (Fuochi nella pianura, 1959), è il primo film di guerra per il regista di Tetsuo e racconta di un plotone di soldati giapponesi dispersi nella giungla filippina. Lo abbiamo incontrato per parlare di questa svolta artistica nella sua carriera.

Come spiega la scelta di aver ricavato la sceneggiatura da un romanzo, per la prima volta?

Ho letto Nobi da studente e ne sono rimasto molto colpito. Avrei voluto adattarlo allo schermo molto prima, ma all’inizio della mia carriera da cineasta non avevo i mezzi. Ora che la maggior parte dei protagonisti della Seconda guerra mondiale sta scomparendo, ho sentito l’esigenza di portare al cinema questa storia: glielo dovevo.

Una scelta particolare: un film di guerra che segue una pellicola sulla maternità e sui suoi lati oscuri come Kotoko.

Anche Kotoko, in un certo senso, era un film sulla guerra: in molte scene la madre vedeva immagini di conflitti bellici in tv e, inconsciamente, si piegava sul figlio per proteggerlo. Inoltre nel suo delirio, a un certo punto, immagina che un soldato stia andando a uccidere il suo bambino: c’è una certa continuità.

Nel film c’è un forte contrasto tra i soldati giapponesi e i guerriglieri filippini.

Sì, è un fatto storico: alla fine della Seconda guerra mondiale gli americani appoggiavano le fazioni filippine contro i giapponesi. Inoltre i nostri soldati si erano comportati in modo terrificante con i filippini, avevano commesso cose orribili: era logico che li detestassero e che ci fosse forte tensione tra le due fazioni.

La guerra viene rappresentata in tutto il suo orrore: ma il vero pericolo per un soldato è il nemico o si nasconde dentro di lui?

La violenza, in tutte le sue sfaccettature, è l’orrore della guerra. Mi interessava svolgere quest’indagine perché spesso, nei film di guerra giapponesi, il protagonista viene dipinto come un eroe senza macchia, o come una vittima, in modo irrealistico. Il soldato, di fatto, è soprattutto qualcuno che uccide, al di là della lettura poetica o melodrammatica che se ne possa fare: volevo rappresentarlo senza mezzi termini.

Si è ispirato al film di Kon Ichikawa tratto dal medesimo romanzo?

Amo Ichikawa in generale e ho amato molto il suo film, ma credo di essermene distanziato: ero più interessato a guardare al romanzo e a dare una rappresentazione forte del lato oscuro dell’essere umano.

Nel film c’è una figura particolarmente inquietante da questo punto di vista: un soldato che, per non dover affrontare l’orrore supremo, si rifugia in un universo di follia e uccide i suoi compagni credendoli scimmie.

Gli esseri umani sono animali e, esattamente come gli altri animali, per sopravvivere sono pronti a tutto. Certo, il libero arbitrio dà loro la possibilità di scegliere in condizioni disperate, il suicidio: ma io credo che l’istinto di sopravvivenza sia così predominante che la prima scelta sia comunque quella di andare avanti, piuttosto inventandosi una realtà parallela per non impazzire e arrivare anche a mangiare i propri simili.

Nei suoi film c’è un forte contrasto tra l’artificiale (la metropoli di acciaio e cemento di Tetsuo, Nightmare detective, Snake of June) e il naturale (il paradiso boschivo di Vital). In Fires on the Plain è la natura a dominare…

In questo film la natura si trasforma in qualcosa di pericoloso, di soffocante, contro cui l’uomo si trova a combattere per sopravvivere. Esattamente come la giungla d’asfalto urbana di Tokyo, la foresta filippina intrappola e ingloba i soldati protagonisti, li fagocita, non li lascia scappare: c’è un certo parallelismo, più che un contrasto, tra città e natura qui.

Sembra quasi che, dalla trasformazione dell’organico nel non-organico di Tetsuo, con il corpo umano che si fa macchina, si sia arrivati in questo film alla trasformazione da organico a super-organico, con il corpo umano che si fa letteralmente carne e si dissolve, biodegradandosi, nella natura.

Ottima osservazione! Penso sia dovuto al fatto che, da giovane, ero iperattivo e amavo circondarmi di tecnologia e velocità. Ora che sto invecchiando, invece, vorrei immergermi nella natura, pacificato: non come un soldato che ne è prigioniero e la combatte, ma per sentire la terra e riconciliarmi con essa.

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