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- Scritto da Camilla Maccaferri
- Categoria principale: Interviste
- Pubblicato: 07 Settembre 2014
Come spiega la scelta di aver ricavato la sceneggiatura da un romanzo, per la prima volta?
Ho letto Nobi da studente e ne sono rimasto molto colpito. Avrei voluto adattarlo allo schermo molto prima, ma all’inizio della mia carriera da cineasta non avevo i mezzi. Ora che la maggior parte dei protagonisti della Seconda guerra mondiale sta scomparendo, ho sentito l’esigenza di portare al cinema questa storia: glielo dovevo.
Una scelta particolare: un film di guerra che segue una pellicola sulla maternità e sui suoi lati oscuri come Kotoko.
Anche Kotoko, in un certo senso, era un film sulla guerra: in molte scene la madre vedeva immagini di conflitti bellici in tv e, inconsciamente, si piegava sul figlio per proteggerlo. Inoltre nel suo delirio, a un certo punto, immagina che un soldato stia andando a uccidere il suo bambino: c’è una certa continuità.
Nel film c’è un forte contrasto tra i soldati giapponesi e i guerriglieri filippini.
Sì, è un fatto storico: alla fine della Seconda guerra mondiale gli americani appoggiavano le fazioni filippine contro i giapponesi. Inoltre i nostri soldati si erano comportati in modo terrificante con i filippini, avevano commesso cose orribili: era logico che li detestassero e che ci fosse forte tensione tra le due fazioni.
La guerra viene rappresentata in tutto il suo orrore: ma il vero pericolo per un soldato è il nemico o si nasconde dentro di lui?
La violenza, in tutte le sue sfaccettature, è l’orrore della guerra. Mi interessava svolgere quest’indagine perché spesso, nei film di guerra giapponesi, il protagonista viene dipinto come un eroe senza macchia, o come una vittima, in modo irrealistico. Il soldato, di fatto, è soprattutto qualcuno che uccide, al di là della lettura poetica o melodrammatica che se ne possa fare: volevo rappresentarlo senza mezzi termini.
Si è ispirato al film di Kon Ichikawa tratto dal medesimo romanzo?
Amo Ichikawa in generale e ho amato molto il suo film, ma credo di essermene distanziato: ero più interessato a guardare al romanzo e a dare una rappresentazione forte del lato oscuro dell’essere umano.
Nel film c’è una figura particolarmente inquietante da questo punto di vista: un soldato che, per non dover affrontare l’orrore supremo, si rifugia in un universo di follia e uccide i suoi compagni credendoli scimmie.
Gli esseri umani sono animali e, esattamente come gli altri animali, per sopravvivere sono pronti a tutto. Certo, il libero arbitrio dà loro la possibilità di scegliere in condizioni disperate, il suicidio: ma io credo che l’istinto di sopravvivenza sia così predominante che la prima scelta sia comunque quella di andare avanti, piuttosto inventandosi una realtà parallela per non impazzire e arrivare anche a mangiare i propri simili.
Nei suoi film c’è un forte contrasto tra l’artificiale (la metropoli di acciaio e cemento di Tetsuo, Nightmare detective, Snake of June) e il naturale (il paradiso boschivo di Vital). In Fires on the Plain è la natura a dominare…
In questo film la natura si trasforma in qualcosa di pericoloso, di soffocante, contro cui l’uomo si trova a combattere per sopravvivere. Esattamente come la giungla d’asfalto urbana di Tokyo, la foresta filippina intrappola e ingloba i soldati protagonisti, li fagocita, non li lascia scappare: c’è un certo parallelismo, più che un contrasto, tra città e natura qui.
Sembra quasi che, dalla trasformazione dell’organico nel non-organico di Tetsuo, con il corpo umano che si fa macchina, si sia arrivati in questo film alla trasformazione da organico a super-organico, con il corpo umano che si fa letteralmente carne e si dissolve, biodegradandosi, nella natura.
Ottima osservazione! Penso sia dovuto al fatto che, da giovane, ero iperattivo e amavo circondarmi di tecnologia e velocità. Ora che sto invecchiando, invece, vorrei immergermi nella natura, pacificato: non come un soldato che ne è prigioniero e la combatte, ma per sentire la terra e riconciliarmi con essa.
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