La interviste impossibili: Nostradamus – Giorgio Manganelli, Carmelo Bene

Creato il 05 gennaio 2013 da Maxscorda @MaxScorda

5 gennaio 2013 Lascia un commento

(Trascrizione di una puntata del programma radiofonico "La interviste impossibili"  trasmesso il 6 agosto 1974
Giorgio Manganelli: testo, Carmelo Bene: voce)

Manganelli – Se, come spero, le indicazioni accordatemi rispondevano al vero; se sono pervenuto al cielo dei profeti, non è irragionevole sperare che quello che ora mi sta davanti, maestoso e astratto, altri non sia che il dotto Nostradamus. E posso sperare che Ella vorrà accordarmi un breve colloquio?
Nostradamus – (voce astratta) Enea, tapiro elettrico, l’Acheronte attraversato, la grande pista incisa strada per caviglie e ciance; l’occhiale stolto indaga la sapiente barba; bufera sindacale sul Giappone in crisi, oleosi balzelli, domeniche ingrugnite, barba di successo.
Perché mai avrò scritto queste fanfaluche? Mah, sono cose da lasciare leggere ai posteri, che ci vedranno tutto e il contrario di tutto; se non che ho l’impressione che codeste strofette in qualche modo mi riguardino. Chi sarà mai questo «tapiro elettrico»?
M – Senta, mio nobile e dotto signore, sono venuto da lontano per un breve colloquio col più fascinoso dei profeti moderni… Colui che predisse, presagì, indovinò e scrisse miracolosi, anche se oscuri, oracoli…
N – Oppure potrei scrivere a questo modo: Sbugiardato Caronte con la scossa, il tapiro senz’ali, con le antenne, offerta una bocca di metallo, insidie la barba e il cappello; presente, è assente; se retrocedo, intervengo nel colloquio tra di noi; Babilonia interroga Salon, passando per Torino, via Lessona. A Lima i grassi scendono dal tram. Dunque, dunque, qui c’è del mistero.
M – Signor Nostradamus, signor Nostradamus, io la vedo scrivere, la vedo parlare tra sé; è dunque tanto assorto da non vedermi in alcun modo? Io temo di turbarla, ma così breve è il tempo accordato a noi che varchiamo l’Acheronte…
N – L’Acheronte? Mi sbaglio, o ho sentito parlare di Acheronte? Una voce quassù sta spiando quel che scrivo? O forse me lo vorrebbe spiegare? Il punto è: se c’è qualcuno, in questo momento, che cerca di parlare con me, io nemmeno lo vedo, perché essendo profetante, me ne sto sempre come è logico, tutto in fuori, per così dire, verso il futuro; qualche volta me ne sto avanti di anni, qualche volta di ore, o di minuti; ma per farmi contemporaneo, bene, devo fare tali manovre, che quando sono contemporaneo, il contemporaneo è già passato; e io devo retrocedere di nuovo. E dunque i miei colloqui, ammesso che io abbia voglia di cianciare, sono estremamente difficoltosi. Dunque, io ho udito la parola « Acheronte», e ho detto le parole « retrocedo », e « ciance»; tutto fa credere che qualcuno, nel presente, cerchi di parlarmi, e che io mi trovi nei dintorni del presente, magari avanti di qualche minuto, altrimenti la parola « Acheronte » non l’avrei sentita. Ora;«retrocedere» di pochi minuti pare una bazzecola: ma vuole una mano sicura e penetrante: come infilare un filo in una cruna d’ago. Forse mi conviene tacere, per vedere se colgo qualche suono che mi guidi attraverso il tempo.

M – Sire Nostradamus, maestro ! Non vorrà accordarmi il privilegio di incidere con me umilissimo…
N – Ho udito «incidere»? Non c’è dubbio: qualcuno mi ha letto, o ascoltato, o piuttosto qualcuno mi manda dei messaggi… Ehi là, dove sei?
M – Ma sono qui, mio buon signore, sono davanti a lei.
N – Oh che tu sia davanti a me, io non dubito; ma io vorrei sapere, in quale punto del tempo tu ti trovi; perché, vedi, io sono un po’ avanti col tempo; riesco a sentirti, ora, perché chiotto chiotto me ne vo retrocedendo, ma a mio avviso ti sto ancora davanti di un paio di minuti, e sento che tu mi chiedi qualcosa sulla fine del mondo, che certamente non mi hai ancora chiesto; e allora se io rispondo a domande prima che tu le faccia, e taccio quando me le fai, io temo che tutto sia per riuscire una grande confusione.
M – Signor mio, io sono di lunedì, alle diciotto e ventiquattro.
N – Non sento, non sento. Resta fermo; facciamo così: tu ripeti sempre la stessa domanda: ad esempio: non va mai dal barbiere? Appena io ti rispondo: no, mai; sarà segno che sono arrivato. Comincia: ma dillo adagio.
M – D’accordo: ma esser profeti è una bizzarra professione, e faticosa anche.
N – Non sento, continua a ripetere: lei non va mai dal barbiere? Io arrivo.
M – Lei non va mai dal barbiere? Lei non va mai dal barbiere ?
N – Un momento! Devo averla oltrepassata. Sei tu che parlavi d’Acheronte? Ma è inutile che tu risponda, tanto non ti sento; adesso riavanzo: ripeti.
M – Lei non va mai dal barbiere?
N – No, mai. Finalmente siamo arrivati. Ora possiamo parlare. E voglio farti io la prima domanda: hai parlato d’Acheronte ?
M – Mi pare di sì, ma non sono sicuro; sarà stato così, per metafore.
N – No, no, ti prego, non vergognartene; vedi, io ho scritto una strofetta profetica che mi è oscura; e forse tu mi aiuterai a capirla.
M – Potrei io aiutare lei?
N – Vedi, tu poco fa eri, per me, futuro, sebbene io fossi più futuro di te, e quindi, a rigore, dovrei considerarti passato; ma dal punto di vista di chi vive costantemente nel futuro, anche il passato può colorarsi di futuro. Capisci?
M – Vorrei capire; lei scrive strofe enigmatiche stando nel futuro…
N – Troppo semplice; per stare nel futuro, come tu dici, io debbo entrarci di traverso, per via di trasposizioni e di metafore. E qualche volta le capisco, qualche volta, no; ne vedo per così dire il colore, non la sostanza; gli uomini non hanno nome, ma delle insegne, delle descrizioni; gli eventi sono bandiere, enigmi, stemmi che mutano colore…
Ecco, quando tu, mio passato, eri anche il mio futuro, io ho scritto due strofette alquanto oscure. Ed ora il tuo arrivo mi dà fiducia di interpretarle. Da dove vieni?
M – Da Roma.
N – Ecco: Enea ti chiamo. Un narratore neorealista avrebbe cominciato: un tale che veniva da Roma… Invece io dico tutto e altro ancora, dicendo Enea; dico che hai fatto un viaggio. «Tapiro elettrico» dico qui; hai a che fare con l’elettricità?
M – Chi mi manda è un’associazione di potenti terrestri che lavorano con l’elettricità appunto. Quanto al tapiro…
N – Ho già guardato il tuo profilo. Ma la pista incisa?
M – Che sia il nastro registrato? In questo modo, le voci si riproducono a volontà.
N – Giovanotto, non voglio spiegazioni tecniche. Ecco: il nastro magnetico per incisione ha fatto altresì da strada per varcare l’Acheronte; tu hai gli occhiali, sei ovviamente stolto, io ho barba e sono saggio, tu fai domande; per datare meglio l’evento, ho tratto un titolo da un giornale quotidiano: «Bufera sindacale sul Giappone in crisi», oggi è il 14 aprile, eh? Mi tengo informato sul vostro secolo; vedi, i balzelli oleosi, costringendo la gente in casa, assicurano un tal quale successo alla mia saggia barba.
M – Mirabile esegesi.
N – Figliolo, tu mi hai aiutato, te ne sono grato. Grazie a te ho anch’io un momento di presente; non credere, stare sempre nel futuro è oneroso. L’altra strofa non deve dire cose diverse: la scossa è l’elettricità, no? Che tu non abbia ali, è ovvio, ma valeva la pena di dirlo, visto che hai viaggiato fin quassù; le antenne saranno una allusione tecnica, vero?
M – Naturalmente…
N – Basta così. Vedi, questa strofa mi consiglia espressamente di retrocedere per essere presente la nostro colloquio. Babilonia, si sa, è Roma, e io sono di Salon, ed ho abitato a Torino, dove adesso è via Lessona. Chiaro?
M – Incredibilmente chiaro.
N – Quanto ai grassi, I’ho preso dal giornale; io non conosco le date, ma solo gli eventi, e anche questi o tradotti in immagini allegoriche, o essi stessi allegorie. «i grassi scendono dal tram» può indicare che i ricchi vanno al potere, se vanno in macchina, o che vengono ridotti in miseria, se vengono costretti a camminare a piedi. Ma i grassi potrebbero essere solo gli uomini carnali, che non vengono trasportati dalla elettricità che consente a te di giungere da me, e che simboleggia ottimamente la forza vitale immessa da Dio nel mondo… Lima è una città ma anche un nome ambiguo: con la lima si logorano le fortezze, la vita, la lima del dolore ti scava il fianco.
M – Ora che è diventato mio contemporaneo, posso, mi concede che io le faccia qualche domanda?
N – Certamente: ma non dimenticare che per me non basta retrocedere fino al presente. Devo tenermi al presente, stringermi ai suoi corrimano, perché il vento che mi spinge mi porta continuamente verso il futuro; se mi distraggo tu sei morto tra tre generazioni, ed io vedo un carro verde dividersi le spoglie del re idropico; la montagna si distende, senza ruote si avventa la bestia inossidabile.
M – Vuole dire qualcosa?
N – Chissà. Astronavi ? Venusiani ? Emigrati dalla galassia ? O forse un incidente durante una partita di calcio. Una delle difficoltà nel leggere il futuro è che non vi è gerarchia degli eventi; deformandosi, gli eventi assumono alla fine una immagine affatto simile, quale che ne sarà nel tempo l’importanza.
M – Lei diceva che questo vivere nel futuro è oneroso.
N – Estremamente; non si sa mai dove ci si trova; non si sa mai se quel che si vede è futile o decisivo? infine non si vede mai direttamente alcunché, ma tutto in una forma araldica; si vive in un delirio di colori e di fantasmi.
M – Dunque il futuro resta oscuro.
N – Sì, è oscuro; molto oscuro. È così che nasce il presente; quando il futuro perde le sue bandiere, abbiamo il presente; ma non vuol dire che il presente sia privo di colori, di simboli, vuol dire che li ha nascosti dentro di sé; quando poi il presente diventa passato, vediamo di nuovo rilucere questi colori; ma allora gli occhi di coloro che scrutano, se non sono dotati, non ne vedono il senso.
M – Dunque il futuro è più completo di ogni altro momento.
N – Per chi sa arrivarvi, è così; il futuro ha in sé l’evento, ma non mortifica nell’evento; ha i colori dello stemma, ma i colori si muovono, sono vivi; porta in sé un divino disegno, ma esso è così esplicito da essere abbagliante; il futuro è non solo enigmatico, ma, mi si consenta il gioco, profetico; esso preannuncia il degradato presente, e l’immobile e consacrato passato.
M – II momento più povero…
N – Dovrei dire che è il presente, ma non è vero: esso è il momento più enigmatico, ma insieme il momento in cui l’enigma viene soppresso, nascosto, contrabbandato. In questo oscuro senso, il presente è indecifrabile, notturno, mentre il futuro è sempre aurorale.
M – Lei non ha mai amato il presente?
N – L’ho vissuto, con la coscienza che non era il mio tempo, che mancava dei sacri colori, degli stemmi e che i suoi enigmi li nascondeva come un ladro. Ho avuto meglie, sono stato vedovo, mi sono risposato. Dunque, avevo una casa, e una compagna mi fu sempre accanto; una compagna misteriosa assai di più delle femmine simboliche che trascrivevo nelle mie sacre strofe. Mia moglie non sapeva di essere un enigma, e questo la rendeva insopportabilmente enigmatica. Ho amato l’oscurità del cibo, e la inquietudine del vino; ho viaggiato, guardando dei frammenti di presente, interrogando e indagando; mentre il futuro non l’ho mai interrogato: l’ho descritto, nelle forme mostruose con cui mi si rivelava. Il futuro era un mostro, di cui non ho mai capito ma sempre visto le membra.
M – Nelle sue strofe, le sue centurie, si ha continuamente, sotto l’oscurità della forma, il senso di una catastrofe imminente. È una sensazione esatta?
N – Non te lo so dire. Anch’io, leggendo quel che ho scritto, ho lo stesso oscuro sentimento: che io parli costantemente di una catastrofe totale, di cui le singole catastrofi non sono che esempi, accidenti. Come se il futuro fosse un’unica catastrofe diversamente articolata. Ma c’è di più: poiché il futuro diventa presente nella forma che si diceva, e il presente si immobilizza nelle gatteggianti forme del passato, tutta la storia dell’uomo non sarebbe che una catastrofica rappresentazione in tre atti, in cui è più o meno evidente l’intimo disegno; nel futuro solo quello è visibile, nel presente, quello appunto è invisibile, nel passato appaiono tracce di misteriosi disegni che sembrano avere coesistito e che luccicano, come segnali di metallo tra le macerie. Ecco la parola giusta; futuro, presente, passato sono tre modi di vedere, di classificare, di abitare le macerie. Io mi sono occupato di macerie nella loro forma più pura, ancora disabitate, puri progetti di sventure o di orrore, stesi sulla pianura immobile dell’infinito domani.
M – Dunque noi abitiamo una città in rovine?
N – Mi ripugna risponderti affermativamente, e tuttavia non so che altro potrei dirti.
M – Ma questa catastrofe… ha pur sempre un disegno? È un progetto ? Un’invenzione ?
N – Non so se siano le parole esatte: dirò che le macerie della città presuppongono che in qualche momento, in qualche luogo, in qualche tempo vi sia una città.
M – Non potrebbe essere in un futuro ancora più futuro?
N – Esiste codesto futuro? Dovunque io mi inoltri, io trovo i segni di una ingegnosa distruzione, come se la volontà della città di esistere si incontrasse con la volontà delle macerie di prenderne il posto. Tuttavia non posso rispondere: può esservi un futuro cui non sono mai pervenuto, in cui le macerie non abbiano luogo.
M – Le sue immagini sono tutte della medesima intensità: si ha l’impressione che all’interno del futuro non vi siano tempi: né un dopo né un prima.
N – È così: almeno per i miei occhi; non vi è un dopo e un prima nel percorso delle macerie o, se esistesse, della città. Esiste solo un prima e un dopo dei-nostri passi; ora, io me ne sto nel centro della pianura del futuro e non procedo. Contemplo.
M – Lei ha detto che il futuro ha una qualità aurorale che intendeva dire?
N – Il futuro, in primo luogo, custodisce la sua qualità enigmatica religiosamente; il futuro, è integralmente presente a se stesso, non è venuto ancora a compromesso con i viventi; inoltre il futuro illumina il presente, gli invia continuamente immagini araldiche, segni, annotazioni, stemmi; per amore delle tenebre future, gli uomini tollerano il giorno del presente, la sua villana luce abbagliante; infine, quando contemplo le immagini del futuro stando per così dire in mezzo a quel serbatoio di oggetti sacri, ho l’impressione che inerisca in tutti una luce intensa e segreta, che tuttavia essi non emettono.
M – Una luce che viene da… oltre il futuro?
N – Mio provvisorio contemporaneo, non mi capisci ? Sì: è una luce che sta fuori del futuro, oh non di molto e tuttavia fuori. Una luce costante, ma che noi non sapremmo guardare, se non vedendone il riflesso nel metallo spento e nell’aria fumosa dei secoli a venire.
M – Vuol dire che…
N – Sì, è naturale: è la luce della fine del mondo; essa è ugualmente vicina a tutti gli oggetti che se ne illuminano; il passato remoto riceve la stessa luce del futuro estremo.
M – Ma… questa fine del mondo è un luogo catastrofico? È la catastrofe delle catastrofi?
N – Non lo so: forse non è così. Se in un luogo esiste la città che precede o ricompone le macerie, non può essere che laggiù. Forse non è la catastrofe. Chi ne sa nulla? Nostradamus non è che il catalogo della morte. Ma se muore la morte, che succede?

(Copiato da http://www.swif.uniba.it/lei/personali/pievatolo/platone/nostrad.htm)


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