Sono le due di notte passate, quando arrivo ad Ospedaletto.
Gli echi della serata di festa sembrerebbero ormai spenti, ma non del tutto a guardar bene: e infatti alle tavolate deserte ingombre di bottiglie vuote, piatti sporchi e avanzi agitati dal vento fresco della notte di settembre fanno ancora da contraltare angoli e vicoli del paese nei quali gli ultimi irriducibili continuano a danzare come in un vortice ipnotico, in cui strumenti antichi e ritmi ancestrali rimbombano innaturalmente, ingigantiti dalla tecnologia dei file mp3 diffusi da enormi amplificatori. E la stessa contraddizione la si vive osservando le cadenze inappuntabili dei giovani inesausti ballerini, che si muovono con la grazia dei secoli andati pur indossando la volgarità e le svalutate griffe del tempo presente.
Questi ragazzi sono davvero belli da guardare, naturali e sicuri come sono. Mentre volteggiano e ridono, hanno perso quell’aria un po’ triste e imbarazzata che spesso contraddistingue chi è nato e vissuto in paese… peccato che siano dovuti o debbano prima o poi andar via: ma non è il momento di pensare a queste cose, stanotte.
La musica va avanti attraverso le ore secondo un proprio linguaggio: tutti conoscono canzoni, parole, passi, figure e sequenze, e le ripropongono all’infinito come se ogni volta fosse la prima, come se le nenie semplici e volgarotte al ritmo delle quali ondeggiano fossero mantra carichi di significati arcani: è la sacralità della danza. Perché ce ne accorgiamo sempre e soltanto nelle deputate esotiche sedi antropologiche, e quando ci passa davanti al naso sotto casa non riusciamo mai a scorgerne bellezza e fascino?
Appena fuori dal vortice dei corpi e delle voci, nelle ultime botteghe ancora aperte campeggiano, ritratti sulle tammorre o in piccole foto e dipinti, i riferimenti divini ed umani di questo singolare popolo della notte, e sono in ordine confuso come balzano all’occhio: la mamma Schiavona, Padre Pio, il Mahatma Gandhi, Totò, Eduardo, Marcello Mastroianni e finanche ‘o guerriero Pietro Taricone, pietosamente anch’egli assurto a nume tutelare all’indomani della sua acerba dipartita. Tutti insieme, e tutta insieme la tribù che balla gusta le ultime fette di formaggio fresco e insaccato, innaffiate dall’offerta rituale del vino.
Girano le lancette, e gli spazi di vuoto e silenzio prevalgono sulle isole superstiti di ballo: i pipistrelli contendono alle cartacce gli eleganti volteggi nel vento, mentre si appresta l’ora cruciale della partenza per la cima del Sacro Monte.
Sono le cinque nella piazza di Ospedaletto, e i pellegrini incominciano ad affluire verso l’imbocco della vecchia mulattiera per Montevergine.
Basta un’occhiata ai capannelli al bar per capire che non sono i ballerini della notte appena trascorsa: queste sono figure più scoutistiche, con stemmi e gonfaloni di vari comuni irpini.
Si avvicina una giovane donna in scarpette e zainetto, preoccupata di non trovare il punto di raduno indicato sui manifesti; la rassicuro che è qui, adesso arrivano tutti e partiamo, ma una veloce indagine ci svela subito che ognuno sta partendo per i fatti suoi, anzi molti sono già partiti. È ancora buio, la strada non la conosciamo, lei non ha torcia, e io ne ho una poco adatta. Ci soccorre un ragazzotto allegro, con un fanale all’altezza della bisogna, e andiamo.
I miei tre compagni – si è aggiunta la fidanzatina del ragazzo – sono qua per un voto, arrancano per motivi misteriosi che nessuno di loro mi dice. Io sono l’unico abituato alla montagna e procedo senza sforzo, oltre ad essere l’unico qui per libera scelta e non per promessa. Con la fatica che gli costa, devono essere davvero motivati per soffrire così, la strada è veramente brutta, sconnessa e pericolosa. Il ragazzo mi racconta che non è la prima volta che fa la Juta, continuando a tacermene le motivazioni.
Sempre al buio, arriviamo alla tappa detta “a’ seggia ra’ Madonna”, uno stretto sedile naturale scavato nella pietra di una grotta, dove le ragazze siedono a turno: scoprirò poi che è una sorta di ordalia di virtù virginale. Le donne anziane invece pronunciano, nel buio rotto dai flash dei cellulari, le invocazioni tradizionalmente previste a questo punto del cammino. L’atmosfera è inquietante, con le voci chiocce e i lampi rossi che squarciano l’oscurità.
Ripartiamo risalendo il costone ovest del monte proprio mentre albeggia. Sarà una splendida giornata, e i più informati mi mostrano, in basso nella vallata, i comuni vesuviani adagiati alla base del vulcano e – addirittura! – l’isola di Capri. Di qui, in linea d’aria, è vicinissima.
Ancora quattro o cinque tornanti – sono undici in tutto, mi dicono – ed eccoci in vista del santuario. Ci avremo messa un’oretta o poco più, e sciamiamo felici sul sagrato pieno di gente allegra, che si conosce e si saluta come davanti al cortile di casa; o in qualche modo si sono dati appuntamento, o forse invece è la montagna ad essere il loro grande paese fatto a saliscendi.
Sulle gradinate dell’abbazia, fedeli di tutte le età intonano un canto di ringraziamento dal sapore drammatico, la cui intensa melodia sembra emergere dalla notte dei tempi. Guida il coro una vecchina vestita di scuro, dai grigi capelli raccolti in una crocchia, le rughe profonde ed i lobi bucati: l’aspetto è fragile, ma la voce è potente e impostata.
Ritrovo alcuni dei giovani che ho visto ballare tutta la notte. Dormono sdraiati sui gradoni, mentre le campane battono le dieci: è ora di entrare in chiesa per la messa… o avviarsi al rientro a valle.