La katia e il battesimo dell’ acqua

Creato il 06 agosto 2010 da Lalelakatia

Eravamo rimasti sulle sponde del fiume in attesa di sapere se le sue acque mi avrebbero reso santo o malato.
Bene, sono sopravvissuto, ma per un breve periodo abbiamo deciso di staccare con la caldissima valle del Mekong per andare in cerca di un po’ d’ aria e di qualche ondulazione della terra superiore ad un sasso.
Per farlo ci siamo avventurati nella remota regione di Mondulkiri nell’ estremo est della Cambogia in una delle rare zone montagnose del paese, poca roba, mille e qualcosa metri, ma abbastanza per tirare il fiato.
Le buone vibrazioni avute finora in Cambogia continuano anche qui, innanzitutto perchè incontriamo nuovamente Inma e Ander i nostri amici baschi che viaggiano con un paio di giorni di anticipo su di noi, e poi perchè più ci inoltriamo fuori dalle rotte più battute il paese diventa sempre più sincero.
Giunti in questo paesino di nome Sen Monoron ci sistemiamo subito su una terrazza di legno a goderci il meritato fresco, non proprio gelido, ma vi assicuro che dopo la pianura cambogiana dove sudavi solo a pensare qui siamo rinati; oltretutto il paesaggio è davvero bello con le sue dolci colline coltivate a caffè e pepe e solcate da strade di terra rossa, sembra quasi una versione un po’ più etnica della Toscana.
Come sempre il primo giorno lo utilizziamo per ambientarci, visitare il paese (5 minuti) che si rivela essere il solito incasinatissimo paesino cambogiano e fare una piccola gitarella in collina in compagnia dei baschi, questa volta senza l’ amata bicicletta ma addirittura a piedi! I dintorni di Sen Monoron sono davvero piacevoli e per nulla faticosi, ma giunti in cima ad una collina con vista su quello che loro chiamano “l’ oceano di alberi” ci rendiamo conto perchè questa zona è considerata la più selvaggia della Cambogia e la più intatta: una infinita distesa di giungla si apre sotto di noi a perdita d’ occhio e, da quel che ci dicono, da queste parti si possono trovare tutte le bestie più feroci e sanguinarie che si possano immaginare. Io ho già la Katia, quindi mi limito a guardare da lontano.


euskal herria i nostri amici baschi


l’ oceano di alberi

Dopo un’ altra piacevole serata passata al fresco bevendo un intruglio schifoso che chiamano vino di riso, ci apprestiamo a partecipare al nostro primo tour, questa volta ci tocca, soprattutto perchè io da solo non lo so guidare un elefante.
Si, come con i pinguini, la Katia ha iniziato già da un paio di mesi a farmi “na capa tanta” con gli elefanti o, come li chiama lei gli “elefantini”.. cos’ avranno di ino lo sa solo lei. Quindi eccoci pronti al nostro trekking in elefante, ci portano di buona mattina fuori dal paese all’ inizio della giungla dove le case iniziano ad essere di paglia e le strade di terra rossa la quale ti lascia addosso una patina arancione dopo solo pochi minuti di motorino.
Aspettiamo l’ arrivo della nostra guida in un villaggio e assistiamo tra l’ altro all’ investimento di un maiale con conseguente strazio al limite delle lacrime della vostra animalista preferita.
E poi, improvvisamente, arriva lei, la nostra poliglottissima guida la quale parla il cambogiano, un qualche dialetto della giungla e ovviamente il linguaggio degli elefanti fatto di grugniti, nel suo repertorio purtroppo non c’è nè l’ inglese nè l’ italiano, quindi, essendo solo io e la Katia, ci si prospetta una giornata da mimi.
Tutti eccitati saliamo in groppa all’ elefantino il quale non ha nome (sembra effettivamente una cosa molto occidentale dare nomi agli animali) e iniziamo ad inoltrarci nella giungla.
Per i primi 5 minuti è anche emozionante, mica capita tutti i giorni di cavalcare una bestia simile; dopo 10 minuti l’ emozione scema, dopo 20 minuti è decisamente andata via, verso la mezz’ ora iniziamo ad avere crampi per la posizione scomoda, giunti all’ ora di snervante cavalcata continuamente interrotta dalle pause del pachiderma per mangiare, iniziamo ad avere l’ orchite; complice il silenzio della nostra guida e la posizione impossibile iniziamo a pensare di aver preso una sola, il dubbio si fa più forte quando ad un certo punto ci fermiamo in una radura per il pranzo e, dopo aver spazzolato un piatto del solito riso portato da casa, la guida si mette a dormire e ci lascia li come due scemi a farci rosicchiare dalle formiche e ad ammirare la mirabolante attrazione del luogo: una cascatina più piccola di quella del ruscello dietro casa mia.
Ma come sempre la Cambogia è pronta a stupirti quando meno te lo aspetti con i suoi improbabili personaggi e la nostra gita in elefante si trasforma improvvisamente in un’ avventura e noi da turisti ci trasformiamo in antropologi del National Geographic (vabbè non proprio…)
Stufi di rimirare le formiche giganti che ci stanno letteralmente mangiando i piedi iniziamo a tempestare la guida (questa proprio non mi ricordo come si chiamava, qualcosa tipo Oh) provando a parlarle in tutte le lingue e dialetti conosciuti, poi la Katia ha l’ idea geniale e si mette a disegnare usando pezzi di rami; riusciamo a farle intendere che vogliamo vedere dove vive e lei incredibilmente capisce.
Pochi minuti nella selva e ci si apre un’ altra radura, questa volta più grande e in parte coltivata. Al centro si trova una capanna con il tetto in paglia e aperta su due lati, la scena che ci si presenta è davvero un passo oltre le nostre precedenti esperienze: questi son selvaggi veri, vivono mezzi nudi, niente elettricità o acqua corrente, coltivano qualcosa e guadagnano qualche soldo con l’ elefante (anche se credo che la fetta maggiore se la magni l’ agenzia che organizza i trekking).
E quindi eccoci qui con la numerosissima famiglia della giungla per quello che io vorrei essere un incontro tipo “the delle 5″ ma già so che le abitudini qui sono differenti e già so che anche qui mi faranno mangiare qualcosa.
Infatti dopo pochi minuti inizia il festival della banana (qui proprio abbondano, non sanno più dove metterle) e a me non va la banana, ma la Katia inizia a dirmi che questi si offendono e che devo accettare tutto (che ne sa poi lei delle popolazioni della giungla??)
E vabbè, mangiamoci sto paio di banane.
Ma vuoi che si limitino solo a misere banane cruda?
“Gentile muso bianco, che ne direbbe di una gustosissima banana abbrustolita” credo abbiano detto questo nella loro lingua porgendomi i moncherini anneriti.
Credo che ci siamo pappati almeno 5 banane a testa, e la carenza di potassio è a posto.
Nel frattempo il papà vedendo che fumo mi offre da fumare un po’ del suo.
E voi penserete che ora la storia prende una piega psichedelica con sostanze segrete della giungla fumate in antiche pipe… magari!!
Tira invece fuori il suo sacchetto del trinciato forte probabilmente coltivato da lui stesso, stacca una foglia da un albero, ci mette dentro il tabacco e l’ arrotola con leccata finale.
Poi in puro stile “jungle” prende un tizzone ardente dal fuoco, l’ accende e me la passa.
Altro che canne.. mi è sembrato di fumarmi 20 sigarette concentrate in una sola da quanto era forte, ma io non sono un vero selvaggio, egli vedendo la mia faccia provata da solo un paio di tiri di una “vera” sigaretta avrà pensato:
“fighetti di città.. tzz”


non è come sembra…

Durante queste fumate e bananate il papi intanto preparava da mangiare e io nel frattempo cercavo di non pensare all’ inevitabile momento che sarebbe arrivato da li a poco: il pranzo.
Ammetto che mi ha affascinato la tecnica culinaria la quale consisteva nel tagliare a pezzetti tutto quello che si trovava in giardino, io sono a riuscito ad individuare: pomodori, melanzane, peperoncino, cetriolo, banane (strano eh?), sale q.b. olio da una tanica e chissà cos’ altro.
A questo punto prendete la verdura e introducetela in un grosso tubo di bambù chiuso da un lato, ponetelo sul fuoco vivo e rigirate di tanto in tanto.
Aggiustate con spezie chimiche varie e terminata la cottura frullate il tutto con un bastone spingendolo più volte all’ interno del tubo. Ecco a voi la “pappetta verde della giungla” da servire con riso.
Cotto e mangiato!
La Katia mi guarda male facendomi capire che devo mangiare tutto e anche stavolta mi tocca e devo dire che non era proprio così malvagia, questo giro però ho rinunciato all’ acqua di fiume che mi è stata offerta.


pentola di ultima generazione

Trascorriamo ancora un po’ di tempo con la famiglia, “chiacchieriamo”, mangiamo altre banane, giochiamo con i bambini e soprattutto riflettiamo sull’ esistenza di queste persone lontane anni luce dal nostro stile di vita, che, anche se non hanno nulla, sembrerà banale a dirsi, sembrano felici e sembrano farsi molte meno pippe mentali di noi; soprattutto i bambini, a differenza di altri bambini visti in città e costretti a lavorare, qui fanno i bambini e basta, giocano nel bosco, giocano con giocattoli costruiti con quello che si trova e se la ridono di gusto.


scorci di vita famigliare

Purtroppo arriva il momento di tornare in groppa all’ elefante per il ritorno e qui arriva il momento della Katia visto che prima di partire bisogna lavare l’ elefante e lei è esaltatissima.
Io mi apposto al bordo del fiume e sto a guardare lei e Oh che cavalcando a pelo entrano in acqua lentamente e in pochi secondi avviene il dramma: ormai tutti tranne l’ elefante sanno del terrore verso l’ acqua della Katia, la quale valuta male la profondità del fiume e, quando si ritrova in mezzo e l’ elefante si butta di lato per rinfrescarsi bene le balle, viene colpita dal solito attacco di panico e sfoggia una agilità che mai le avrei attribuito per rimanere in groppa all’ animale.
Ho documentazione dell’ accaduto, questo è il filmato:

Stanchi, col culo rotto e con la Katia fradicia torniamo in paese dove trascorreremo ancora un paio di giorni prima di ritornare a valle a sudare un po’. Lei dopo aver fatto questa esperienza giura che non salirà mai più in groppa ad un elefante, non tanto perchè è scomodo, ma per come a volte vengono trattati e perchè forse a loro semplicemente non va di scarrozzare per la giungla due buzzurri come noi, forse vorrebbero starsene semplicemente per i fatti propri a sradicare alberi di bambù in santa pace.
Dopo un’ altra sosta a Kratie dove ormai ci sentiamo di casa ci incamminiamo per la nostra ultima tappa, un altro fuori percorso, questa volta Ratanakiri, per arrivarci prendiamo un bus che forse batte tutti quelli usati per ora da quanto è vecchio, rotto e strapieno: questa volta riescono a sistemare addirittura un motorino incastrato fra i sedili, giuro!
A Ratanakiri non faremo molto se non qualche gita in bici (scelta sbagliata in una zona collinare) o relax e letture sulla veranda in una guest house che sembra la casa della famiglia addams, nella quale passeremo anche una notte thriller nella quale la Katia giura di avere visto un topo in camera, ma questa è un’ altra storia.


lago vulcanico a ratanakiri

Ci apprestiamo quindi a lasciare la Cambogia per il Laos, ci porteremo questo paese nel cuore per come ci ha fatto sentire vivi grazie a tutti i personaggi che la popolano e alle situazioni paradossali incontrate, in un futuro se dovessimo ritornare da queste parti del mondo non mancheremo di passarci un’ altra volta.

Lale


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