LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. II

Creato il 15 dicembre 2010 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. II

Giunto a Porta Nuova, già saltato sulla banchina, in marcia per uscire dalla stazione, frastornato eccitato speranzoso respirò l’aria nuova delle Alpi. Febbricitante di felicità, con il suo miserabile bagaglio a mano, con le vertigini e gli orecchi pieni di rumori e grida, non si accorse di nulla. Si tirò fuori, uscì all’aperto con la stazione alle spalle, alzò gli occhi al cielo scorgendo un sole paglierino e nubi grigie, e si disse che a Torino tutto sarebbe stato diverso.

Non fu poca l’indignazione quando un marocco gli si parò davanti con il suo sorriso d’avorio chiamandolo ‘amico’, mostrandogli le sue mercanzie dappoco, invitandolo a comprare. Poco ci mancò che gli cadesse fra le braccia svenuto. Credette in un primo momento che era vittima d’un’allucinazione, ma quello gli stava proprio davanti ed era chiaro che non aveva intenzione di scollarsi. In ciabatte, con quel suo ridicolo ghigno, gli stava illustrando che lui vendeva accendini, orologi, tappeti, anelli, braccialetti portafortuna…
Aveva addosso tutta la paccottiglia immaginabile e non. Un ometto piccolo in confronto al carico che portava e che doveva pesare almeno il doppio di lui. Non sembrava patito né stanco. Tutt’altro. Nei suoi occhietti demoniaci Lino lesse chiaro il messaggio che gli sarebbe rimasto incollato alle chiappe, perché lui doveva vendere. Avesse avuto la forza gli avrebbe tirato un pugno in mezzo al naso. Ma era già mezzo panicato con il cuore a picchiargli dentro alla cassa toracica, e per giunta c’era la polizia: dovunque gettasse lo sguardo c’erano i piedipiatti. Non capiva che diavolo facessero. Sembrava bighellonassero. Non fermavano nessuno. Raggelato si rese conto che gli extracomunitari erano la maggioranza là fuori, sul suolo di Casa Savoia. Non un poliziotto che dicesse a tutti quei figli di Maometto di levarsi dalle palle. Erano anzi accondiscendenti, li trattavano da amici, con timore reverenziale, prendevano in mano la loro sporca merce, qualcuno gli dava pure dei soldi per accendini e braccialetti. Lino messo di fronte a questo spettacolo temette di morire. E forse se lo augurò di tutto cuore, seppur nell’intimo in maniera più che mai inconsapevole.
Biascicò un “no”.
La lingua schioccò di nuovo, contro il palato a vuoto. Dalla gola non gli venne suono udibile. Solo un sibilo. Allora fece per allontanare il marocco con un gesto della mano. Fu a questo punto che si sentì preso alle spalle. Fece per reagire. Non gliene fu dato il tempo. Prima che potesse muovere un solo muscolo era già con la faccia giù a baciare il nero asfalto. Un poliziotto. No, ben due l’avevano bloccato. Uno se lo stava cavalcando con il ginocchio contro la schiena facendogli un male cane. Gli intimava di tirare fuori i documenti. L’altro ripeteva, come un disco rotto, che i figli di puttana come lui si riconoscono lontano un chilometro.

Rimase accucciato sotto un albero con il naso sanguinante e gli occhi spiritati. Aridi. Non un pensiero gli trapanava la testa non ostante la violenza subita. Non li avevano chiesti al marocco i documenti. Li avevano voluti da lui, un italiano. Non era stato un fottuto sbaglio. Quelli avevano voluto i suoi cazzo di documenti, per controllare che non fosse un poco di buono. Così gli avevano detto una volta che avevano verificato che era un terrone e basta. Gli avevano messo pure le mani nel bagaglio buttando tutto il suo poco contenuto ai piedi del marocco, senza alcun riguardo. Sghignazzando uno dei due piedipiatti l’aveva rassicurato, “E’ la prassi, la prassi…”..

All’ombra, pesto e mezzo panicato, aveva inteso che a Torino non sarebbe stato diverso. Non sarebbe comunque servito fare dietrofront, giù in Paese era la stessa merda e ci si conosceva tutti per nome e cognome. Torino se non altro era una città grande. Chissà che in altre zone fosse diverso. Migliore. Lino sperava che così fosse, anche se non ci credeva. Rimase perché era più facile nascondersi, perlomeno così si illudeva.
Raccattò la sua copia del sermone, che i piedipiatti avevano calpestato con le scarpe d’ordinanza e con amorevoli carezze cercò di levar via le impronte lasciate impresse sui pensieri stampati.

Attorno a lui era tutto un viavai di extracomunitari. Non c’era un piemontese a pagarlo a peso d’oro. O musulmani o terroni come lui. Ebbe un conato di vomito che lo fece arricciare su sé stesso.
Auto e bus clacsonavano diffondendo nell’intorno una babele di suoni demoniaci. Marocchi, peruviani, cinesi, negri, zingari erano a loro perfetto agio, la confusione era la lingua che masticavano e che spesso sputavano per terra insieme a del catarro verdastro condendolo con fluviali misteriche bestemmie. La civiltà cristiana era finita sotto il piede di Maometto.
Mentre attraversava sulle strisce pedonali Corso Vittorio Emanuele per poco non lo presero sotto. Un camioncino scassato con due musulmani a bordo, infischiandosene e delle strisce e del semaforo, scatarrando fumo dal tubo di scappamento, si fermò a un centimetro dal suo naso. Con le ginocchia molli tirò avanti sulle strisce. Un vigile urbano gli faceva segno di darsi una mossa e subito. Che l’avevano quasi stampato sull’asfalto non se n’era manco accorto.

Dall’altra parte del corso la facciata di Porta Nuova si mostrava livida di un cachinno grottesco, più simile a una moschea che non a una stazione.

(c) Coperto da copyright. Severamente vietata la riproduzione parziale o totale della presente Opera, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 2 di 9.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :