Cap. IV
I piedipiatti avevano fatto il culo a lui, a uno ch’era un cittadino italiano, mentre non avevano toccato il marocco, anzi si erano scusati con lui, avevano comprato la sua sporca mercanzia e se ne erano andati insieme come amici di lunga data.
Lino non ricevette una bella impressione da quella che era stata in altri tempi l’Augusta Taurinorum. Se del fasto era rimasto nella città dei Savoia era stato ben scagazzato dai musulmani e dalle loro cricche di pedofili.
Con le ossa peste e l’anima ritirata nel buco del culo, gli occhi allucinati e lo stomaco pronto a vomitare bile, raccolse le sue poche cose, le cacciò dentro alla valigia improvvisata che si era portato dal paese e si issò sù sfidando la facciata della stazione di Porta Nuova, che continuava a vomitare colossi di negri alieni e a tutto insensibili.
Gli ci volle poco per scoprire che tutta quella marmaglia, all’apparenza devastata, era davvero della gran brutta gente. Questa l’opinione che presto si fece il giovane, opinione che si fece certezza quando seppe che tutti gli stranieri prendevano diversi sussidi dal Comune, dalla Regione, da diversi enti onlus. Tutto questo era di per sé scandaloso, perché lui italiano e con le pezze al culo non aveva diritto a niente, men che meno a vivere, mentre agli extracomunitari, fossero essi magnaccia e spacciatori, stupratori e pedofili con una due tre mogli bambine, lo Stato gli cacciava i soldi praticamente in tasca. Anzi li costringeva a ritirare l’assegno. Li allattava al suo seno. Se li coccolava al pari di principi celesti.
Lino la prima notte torinese la passò all’addiaccio, non riuscì difatti a trovare un ospizio disposto a cedergli un letto per qualche ora. Tutti occupati. Certo che era così, Torino era piena di musulmani e di negri di tutte le sfumature.
Quando si fece l’una e la notte troppo fredda cercò ricovero in un Pronto Soccorso. L’ospedale Molinette gli era stato detto che era il più grande e il meglio attrezzato. Ci arrivò disfatto con il cuore in gola per la fame e il panico che oramai gli stava sulle spalle più pesante d’una scimmia. Per essere grosso era grosso, pareva la balena di Giona: avrebbe potuto ingoiare gli abitanti di un paese e di più.
Pallide stelle facevano capolino sull’ospedale. Si sorprese ma non più di tanto: le mura della struttura ospedaliera erano sotto gli sguardi di puttane e papponi nonché di piccoli spacciatori. Le bocche ghignanti spalancate in risatine grottesche aspettavano soltanto che un dottorino smontasse dal suo turno per farsi staccare un pompino. I drogati ciondolavano fermando chiunque passasse lì per caso; reclamavano una sigaretta e un paio di euro per comprare il biglietto del pulman – così dicevano. Tutti filavano dritto se potevano, se non venivano placcati. Gli anziani presi di mira erano costretti a sputar fuori sigarette e spiccioli. Erano loro le vittime preferite dei drogati. Le prostitute erano tutte delle straniere, perlopiù rumene e negre, molte coi seni in bella esposizione. Ma di più erano i travestiti, che Lino scoprì essere i più quotati, quelli che venivano avvicinati da giovani fasci in vena di scherzi e da maiali in cerca d’un’emozione forte. Penetrante. Dura. Aveva già avuto modo di assistere a una contrattazione tra quello che doveva essere di sicuro un dottore e una trans. Gli ci era voluto meno d’un minuto per mettersi d’accordo, avevano poi portato via le chiappe fino a una Mercedes, quella del dottore: la trans era stata fatta accomodare come una vera signora. Il dottore baffuto e mezzo brizzolato le aveva sorriso complice infilandosi al posto di guida. L’aveva caricata per un servizietto completo, mica per un pompino punto e basta. Ci avrebbe passato la notte intera. La Mercedes era schizzata via nella notte lasciando dietro di sé l’eco del motore.
Non era meglio di quello del suo paese quel diavolo di ospedale. Entrare fu calarsi nella bocca dell’inferno, difatti il Pronto Soccorso era al piano -1 anche se non si capiva bene. Forse era a metà strada, nel limbo fra il piano 0 e il -1. In ogni caso l’obitorio lo trovò subito. Un budello di catacombe, di tubi a rincorrersi sul soffitto bassissimo, di luci lampeggianti, di stop radioattività. Una luce giallastra dai tubi al neon illuminava il budello puzzolente di disinfettante nel vano tentativo di nascondere l’odore della morte. Un nodo alla gola lo prese e non lo mollò più: stare là dentro, fra quelle pareti scabre attaccate dall’umido, era quanto di peggio si potesse augurare a un malato. Infermiere tarchiate, vilmente boteriane, chi spingendo una barella con sopra un lenzuolo bianco, chi una carrozzella con dentro un vecchio paralitico rinsecchito morto nelle orbite cieche dei suoi occhi, non gli badavano proprio: inutile che cercasse di fermarle, quelle tiravano dritto. Fosse stato invisibile sarebbe stato più facile farsi notare.
Alla fine riuscì a trovare la Sala di attesa dove intendeva accasciarsi su una sedia e sonnecchiare. Sembrava una di quelle camere a gas che aveva visto in certi filmati di repertorio sui nazisti. Dentro c’erano italiani, senegalesi scalzi, barboni, musulmane e una macchinetta per il caffè. Subito uno schiaffo di puzzo lo investì facendolo barcollare. Non sarebbe entrato non fosse stato per un barelliere che gli si era attaccato al culo invitandolo a ‘darsi una mossa’. Una volta dentro cercò una sedia che fosse in un angolo, distante abbastanza da quella gentaglia con cui non voleva aver nulla a che fare. Fu fortunato, una sedia in un angolo muffoso c’era e pareva che tutti la evitassero. Lino ci si accasciò sopra. Aveva l’aria condizionata sopra la testa che sparava uno spiffero freddo. Ecco perché nessuno faceva a botte per quel posto, ma a Lino stava più che bene, l’aria condizionata avrebbe mitigato il puzzo inappellabile che stagnava nell’ambiente.
Non uno fece caso a lui, nemmeno i barboni e il drogato che faceva avanti e indietro nella stanza. Doveva essere messo davvero male per non essere degnato d’uno sguardo. In fondo gli stava bene così. Sarebbe stata una grossa seccatura essere interrogato, magari da uno dei senegalesi coi piedi neri fuori dalle ciabatte. Erano un bel gruppetto, si erano accomodati occupando un’intera fila di sedie tutti sfilando i piedi dalle calzature, manco fossero a casa loro. Nessuno però diceva niente. Forse per rassegnazione. Forse perché non conveniva venire alle mani con quei colossi che non si capiva mica perché stazionassero in un Pronto Soccorso, non ce l’avevano affatto la faccia di quelli malati. Lino era comunque troppo distrutto per continuare a prodursi in elucubrazioni. Gli bastò chiudere gli occhi un minuto per addormentarsi con il capo ciondolante sul petto.
Quando si risvegliò aveva la bocca impastata. Erano i senegalesi che berciavano fra di loro. Non si capiva un’acca. Parevano felici.
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