LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. IX

Creato il 21 gennaio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. IX

Lino sudava freddo. Da quando era a Torino gli capitava sempre più spesso. Le crisi di panico invece di diminuire si erano fatte più frequenti.
Il suo arrivo nella capitale sabauda lo aveva frastornato. Non si aspettava di trovarsi in una casbah.
Ogni volta che metteva piede fuori temeva che un anonimo fondamentalista, o un più comune terrorista, gli facesse la pelle magari con la scusa di chiedergli una sigaretta.

Umberto e Giampaolo gli avevano rimediato il buco che era diventato il suo spazio intimo e vitale. Per cagare si doveva tirare giù i pantaloni e mettersi alla turca. Un vero supplizio riuscire ad evacuare, mentre le pareti tremavano sotto le urla dei vicini, urla aliene di musulmani, marocchini, negri, spacciatori travestiti invertiti.
Dalla Caritas, di tanto in tanto, riusciva ad avere un maglione o un paio di scarpe, ma aveva il sospetto che gli dessero la roba più scadente. Non era l’unico povero, c’erano tantissimi extracomunitari anche. Umberto e Palo lo avevano rassicurato che le sue erano solamente delle ubbie. Lino invece sospettava che la Caritas desse la roba migliore agli stranieri, mentre agli italiani dava gli scarti o niente del tutto. I suoi amici, i soli che era riuscito a farsi, lo guardavano male. Non poche volte nei pochi metri quadrati dell’appartamentino erano venuti alle mani. Lo accusavano d’essere un fasciocomunista. Ma non potevano provarlo. Lino stesso non sapeva dire se fosse sul serio un fasciocomunista, o se era soltanto un deficiente punto e basta. Alle volte si trovava d’accordo con quelli della sinistra, altre ancora con quelli della destra. Il più delle volte sputava in faccia a tutti, anarchici compresi. Di una cosa era certo, era scontento e solo.
Aveva una fame del diavolo, lo stomaco gli spaccava l’anima in corpo. Doveva mettere sotto i denti qualcosa che non fosse della porcheria allo stato puro, patate bollite o pane secco bagnato innaffiato acqua di rubinetto. La necessità di mangiare lo fece cadere nel panico più sincero. Finì col mordersi la lingua a sangue. Quando se ne accorse il panico non fece altro che aumentare. Malfermo sulle gambe riuscì a portarsi fuori dalle quattro mura che gli facevano da prigione. In strada rumori e voci giungevano ovattate al suo orecchio mentre la luce, per quanto poca fosse, lo accecava. Come un Omero senza arte né parte si buttò in mezzo alla folla. Qualcuno gli ficcò una gomitata nello stomaco. Senza rendersene conto stramazzò a terra. Sul momento non accusò il dolore. Si aggiustò in posa fetale sull’asfalto e chiuse gli occhi: il cervello gl’era andato in tilt.

Si svegliò in ospedale. Lo avevano messo su una barella e coperto con una coperta. Non aveva flebo attaccate al braccio. La coperta gli dava prurito lungo tutto il corpo. Se la levò di dosso e saltò giù dalla barella, quando una infermiera lo stoppò invitandolo a rimanere al suo posto. Lino obbedì senza protestare. Aveva la testa troppo vuota per dire qualsiasi cosa.
Gli fu servito un vassoio con sù della roba da mangiare: un brodino, purea di patate, un panino e quella che doveva essere una bistecca. Lino divorò tutto senza fiatare. Gli parve di non aver mai mangiato così bene, tanto che chiese il bis alla prima infermiera di passaggio. Due inservienti gli portarono un altro vassoio, felici di sbarazzarsi di un po’ di sbobba che gli altri malati rifiutavano schifati.


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