LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XIII

Creato il 06 febbraio 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. XIII

Era circondato da centinaia di burqa.
Un anello incredibile di fantasmi negri quelle donne di occhi, di odio.
Una cantilena incessante veniva vomitata dalle loro bocche invisibili: “E di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne. E non battano i piedi, sì da mostrare gli ornamenti che celano. Tornate pentiti ad Allah tutti quanti, o credenti, affinché possiate prosperare”. *
Ed ecco il fulmine del fanatismo serpeggiare nelle loro pupille nere più del nero petrolio.
Un odio animale, di certo più vecchio del mondo e di Dio.
Le loro mani armate di pietre sanguinanti.
Quelle mani di nervi elettrici erano pronte a lapidarlo sul posto.
Lino non immaginava proprio come cazzo fosse finito in quella porca situazione.
Un sole alieno lo bruciava e questo era quanto. Un sole uguale ad un occhio di odio lovecraftiano.
Le donne, se tali erano sul serio sotto i negri burqa, lo fissavano con morbosa intensità pronte a ridurre il suo corpo a una poltiglia di carne e sangue sotto il peso delle pietre.
Nonostante il sole a scavargli l’anima con le sue lingue di fuoco, Lino accusò un freddo intenso rapirgli la mente sprofondandolo in un terrore cieco, che mai prima d’allora aveva creduto possibile. Un terrore così tanto forte che lo fece cadere in ginocchio come una marionetta a cui siano stati strappati i fili. Come se il marionettista gli avesse strappato il cervello dalla scatola cranica con un forcipe.
Sepolto nel suo stesso corpo, legato alla carne della sua dannata mortalità, lasciò che i negri fantasmi nascosti nei burqa cominciassero a lapidarlo.
Una pietra lo colpì dritto in fronte lasciandogli una ammaccatura profonda e sanguinante. Ma Lino non batté ciglio. Anche volendo non avrebbe potuto. Era già stato sepolto, sepolto nel suo stesso corpo di carne e sangue. Una seconda pietra sanguinante lo colpì con straordinaria violenza strappandogli l’ancora viva carne dalla guancia destra. E una terza pietra gli si piantò nell’orbita dell’occhio sinistro. Altre pietre arrivarono e tutte fecero segno. C’era di mezzo la mano del Profeta Maometto, non poteva essere altrimenti. I fantasmi nei loro burqa lanciavano con precisione e metodo, come se da sempre non avessero fatto altro.
Lino era paralizzato.
Il corpo, la sua tomba doveva esser già un ammasso sconcio di sangue e carne macerata.
Era morto, ne era certo. Ed allora perché quei fantasmi nei loro burqa continuavano a lanciargli pietre addosso? Non aveva senso. Il suo corpo era steso a terra, perlomeno quello che ne restava, un aborto di muscoli e nervi, di ossa spezzate e sangue. Non aveva senso che spendessero altre forze per la sua lapidazione. Era morto, un aborto seppellito all’aperto, esposto ai quattro punti cardinali.
D’improvviso il lancio di pietre cessò. Un burqa si staccò dal gruppo. Scivolando sulla sabbia, senza lasciarsi alle spalle orma alcuna, si fece dappresso alla cosa che un tempo era stata un uomo. Lanciando un grido scimmiesco, il burqa vomitò fuori un braccio che s’introdusse nella carne macellata ai suoi piedi. Ne uscì pochi istanti dopo. La mano stringeva quello che un tempo era stato il suo cazzo. La dannata stringeva in mano il suo pene completo. Lo alzò al cielo come a volerlo mostrare all’occhio di sole che stuprava il cielo d’una limpidezza innaturale. Davanti all’orrido spettacolo i burqa lasciarono cadere le pietre che ancora stringevano in mano; e presero a lanciare alte grida di scimmiesca eccitazione.

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