LA LEBBRA di Iannozzi Giuseppe – Cap. XVI

Creato il 01 marzo 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Cap. XVI

Gabriele cominciò a sfregarsi gli occhi. La rabbia gli era salita al cervello e le lenti a contatto erano peggio di chiodi nelle sue orbite. Se le levò subito gettandole sulla scrivania. Se qualcuno l’avesse visto non avrebbe approvato. Ma Gabriele non era dell’umore giusto, non dopo la strigliata che gli aveva inferto Dalla Chiesa.

Una volta fuori dell’Ospedale M. nessuno avrebbe potuto riconoscerlo. Del giovane e brillante dottore non era rimasta traccia. Scapigliato, senza le lenti a contatto blu, con indosso vestiti da pochi soldi, era tornato ad essere sé stesso, un tipo poco raccomandabile. Cieco di rabbia aveva dato sfogo a un soliloquio in lingua araba. Chi se lo vedeva passare accanto lo scansava non senza timore. Né le puttane né i travestiti gli sorridevano, non lo consideravano un cliente e in cuor loro si auguravano di non dover avere mai a che fare con un simile pezzo di merda, capace di sicuro di scatenargli una jihad nel culo per puro capriccio.
C’erano già stati casi di pazienti morti in sala operatoria, uno persino in reparto, senza una vera causa. L’ospedale era sotto inchiesta e guardato a occhio. L’amministrazione non voleva sentire scuse, il bilancio non quadrava e le morti sospette avevano dato una forte spallata in negativo al bilancio; qualcuno già mormorava che presto si sarebbe giunti alla privatizzazione, ma era quelli iscritti al sindacato e qualche comunista del piffero a vedere sempre tutto secondo la formula de il rosso e il nero. Ciò non toglieva che Dalla Chiesa l’aveva umiliato e Gabriele non riusciva a mandar giù l’amaro boccone pur riconoscendo che il primario aveva ragione. Non gli era piaciuto il tono e, a dirla tutta, quell’uomo gli stava sullo stomaco. Mentre s’infilava nella Torino musulmana giurò su Allah che al momento giusto gliel’avrebbe fatta pagare in un modo o nell’altro.

Umberto e Palo, non avendo trovato niente di meglio da fare, avevano deciso d’ammazzare la noia facendo un giro al Balôn, lasciandosi alle spalle Porta Palazzo con le sue massaie urlanti, invasa da decide di bancarelle ortofrutticole. Umberto aveva scovato un libro, una cosetta smilza di poche pagine di un certo Antonio Moresco. Il titolo era scritto in giallo e in grassetto, il nome dell’autore invece era d’un bel bianco. In copertina campeggiava una foto, forse di una famiglia di zingari e in primo piano un piccolo zingarello pulcioso. Il librettino prometteva “un viaggio tra i Rom di Slatina e Listeava in Romania, tra persone costrette a vivere in case di fango o dentro buche scavate nel terreno”. Umberto si grattò la pelata non troppo convinto. C’era qualche cosa di stonato in quel libretto, anche se non sapeva dire di più, non così sù due piedi. Si sforzò di leggere la quarta di copertina nel tentativo di capire meglio: “Questo misto di libertà e opportunismo, di fierezza e di infingardaggine, di irriducibilità e di parassitismo, di anarchismo e fascismo…”; poi prese a sfogliare il libro soffermandosi sù alcune foto che erano state relegate in una sorta di appendice. Lo sfogliò ancora un po’, mentre Palo gli stava attaccato come una zecca, senza nulla proferire. Alla fine lo buttò sulla bancarella, con spregio. Era il solito libello di nessuna sostanza, una stronzata scritta da un comunista marcio fino al midollo, di certo da un lombardo con molti danè nelle tasche, da uno annoiato e rompicoglioni, insomma da quel tipo di intellettualoide salottiero con un ego smisurato da cui è sempre bene tenersi alla larga.

Aveva dimenticato di levarsi dal collo il crocifisso, ma Gabriele se ne rese conto solo quando una zingara a piedi scalzi lo avvicinò chiedendogli l’elemosina “per l’amor di Gesù Cristo” con una mano tesa e l’altra occupata a reggere la manina d’una zingarella, con tutta probabilità o la figlia o la sorellina bastarda. Ci volle un nulla perché nascesse un madornale parapiglia; Gabriele ghermì con forza la mano della zingara sputandole dritto in faccia; per contro lei gli sferrò un bel calcio nelle parti basse che lo costrinse ad allentare la presa facendolo piegare in due. Lo scontro sarebbe potuto finire qui non fosse stato che il musulmano, ferito nell’orgoglio, invocando Allah si avventò con furia omicida sulla zingara, che però lo scansò facendolo incornare contro il muro d’un vecchio caseggiato. Dalla fronte dell’uomo sgorgò subito una fontanella rossa di sangue che gli invase gli occhi di lacrime. Accecato dalla vista del suo sangue, del sangue di lui un figlio di Allah, Gabriele si buttò a corpo morto sulla donna, che questa volta ruzzolò a terra trascinando con sé anche la zingarella. Un groviglio di corpi, nella casbah torinese, non meno sconcio di quello della vantata puttana di Babilonia si compose sull’asfalto nero. Un capannello di curiosi, di arabi perlopiù, si raccolse intorno ai tre corpi in lotta fra di loro. Gabriele riuscì ad afferrare la piccola zingara e solo un miracolo fece sì che la lama del coltello non le sfregiasse per sempre il volto. Alla fine era riuscito a tirarlo fuori, un coltellaccio di sette pollici. Davanti allo scintillio della lama la zingara si fece pallida come la neve. Nessuno interveniva e gli arabi tifavano con foga scimmiesca per il loro uomo. D’improvviso una lama di luce cadde dal cielo e si piantò sul petto di Gabriele: fu in quel momento che la zingara decise che gli avrebbe strappato il crocifisso d’oro a titolo d’indennizzo. Prima che l’aggressore potesse rendersene conto lei gliel’aveva strappato dal collo, e raccolta la bimba piangente in braccio, rischiando e dando le spalle alla lama nemica, si lanciò in una corsa disperata fendendo la folla che non riuscì a trattenerla.

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