di Cinzia Carotti -
21 luglio 2014
Titolo originale:Only God Forgives
Regista: Nicolas Winding Refn
Cast: Ryan Gosling, Kristin Scott Thomas, Tom Burke, Vithaya Pansringarm, Yaya Ying
Genere: Thriller
2013
90 min
A Bangkok, Julian (Ryan Gosling), fuggito alla giustizia americana, gestisce ora un club di boxe thailandese per coprire il suo traffico di droga. Sua madre, capo di una vasta organizzazione criminale, è arrivata negli Stati Uniti per rimpatriare il corpo del suo figlio prediletto, Billy (Tom Burke). Il fratello di Julian è stato ucciso per aver brutalmente assassinato una giovane prostituta. Gonfia di rabbia, la madre Crystal (Kristin Scott Thomas) vuole che Julian vendichi la morte di Billy, ma questi si troverà ad affrontare Chang (Vithaya Pansringarm), un poliziotto che senza divisa incarna la figura di una giustizia parallela a quella statale, che nonostante l’efferatezza, è perfettamente tollerata e supportata. Quest’ultimo profondo conoscitore del territorio metterà i bastoni fra le ruote a Crystal generando una spirale di morte e follia conducendoci negli abissi dell’odio e della vendetta.
La sensazione che lascia questo tipo di pellicola è quella di aver visto (almeno) tre film differenti a caratteri sovrapposti. Siamo in B Movie con bei momenti lynchiani, in un thriller psicologico alla Cronenberg ma con note meno eclatanti, in uno splatter alla Tarantino ma senza la sua proverbiale ironia. E’ una creatura ibrida che merita un’analisi ingombrante per una matassa tanto intricata. Entriamo in un vero e proprio labirinto psicologico in cui la Legge (intesa come codice d’onore e comportamento eticamente retto) si confonde con la Vendetta (il caos passionale dettato dal sangue e dal dolore personale) in quel luogo dove non esiste nessuna redenzione o perdono; ovvero la realtà che stiamo vivendo. Solo un ente terzo, Dio, può sospendere la Legge e la Vendetta in quanto sono inscritte nella natura umana e come tali non possono essere superate dagli uomini, ma vanno vissute e rielaborate a seconda della propria natura. Si arriva a una conclusione che è una vera e propria epifania: l’uomo non può perdonare perché è dominato da questi due emisferi (Legge e Vendetta), senza i quali appunto sarebbe una forma di vita Innocente (il perdono sospende ogni tipo di malvagità), ma come ben sappiamo nessuno di noi è veramente innocente proprio perché umano. Come agiscono su di noi Legge e Vendetta? Refn risponde in modo esaustivo attraverso i tre momenti catartici del film.
Il meccanismo punitivo esterno
Il film è plastico e visivamente simbolico. La regia è una vera e propria orchestra di simboli psichici che ci conducono, più o meno involontariamente, attraverso il sentiero traumatico della violenza e dell’odio. Infliggere una punizione, o un atto di vendetta, è sempre un trauma. Intendiamo per trauma ciò che ci porta a interrogarci sulla legittimità delle nostre e altrui azioni, e queste riflessioni hanno specifiche conseguenze: ci immergono nel senso di colpa oppure generano un senso di onnipotenza, ovvero gli stadi che Julian affronterà in prima persona. Julian riscopre la profondità degli eventi tramite l’incontro di Chang (la Legge quello che siamo abituati ad intendere come “padre terribile”). L’analisi del mondo gli risulta impossibile, infatti, quando è a contatto con la madre, ovvero la passione e la Vendetta, simbolo di tutto ciò che fa perdere lucidità e pazienza, e di cui Julian è patologicamente succube.
Chang è la parte luminosa della pellicola, si muove in spazi ampi e arieggiati ed è circondato da un’aura iconica e tradizionale. Come ogni Legge egli è fermo, irremovibile, e come tale terribile. Vediamo questo personaggio, che dovrebbe incarnare quel Dio degli eserciti che alimenta i giusti e opera la dannazione dei malvagi, come un essere umano talvolta vincitore ma anche sconfitto nel medesimo istante. Chang è consapevole di essere umano, di avere dei legami che lo rendono speciale (la figlia) ma anche fragile e vulnerabile (gli amici poliziotti), sa di poter perdere la sua vita e agisce anch’esso di impulso diventando egli stesso violenza arbitraria e vendicativa. Assistiamo alla misteriosa Legge del Tao: non esiste yin senza yang.
Allo stesso tempo la madre di Julian, la vendetta, appare supportata da ragioni forti e giuste: chi non vorrebbe vendicare il proprio figlio? E se l’assassino non paga con la Legge cosa coviamo dentro di noi quando ci sentiamo traditi nelle nostre aspettative di giustizia? Ella appare come pura ombra. E’ caratterizzata da ogni assenza di luce, anzi viene avvolta ossessivamente da un rosso soffocante e crudo. Ma come dice Julian alla madre (che arriva a giustificare lo stupro di Billy): la questione è molto più complessa di quanto appare. Infatti questa è solo la porzione esteriore (e se vogliamo l’ossatura narrativa) che è una conseguenza di un conflitto interiore.
Il meccanismo punitivo interno
Chang è la parte luminosa del nostro Io, mentre Crystal è la parte oscura il nostro Sé. Il Sé è legato alle passioni primordiali, agli istinti, alle pulsioni emotive e sessuali. L’Io invece è legato alla cultura, ai valori sociali che riteniamo fondamentali e vi aderiamo senza indugio. L’Io è frutto delle nostre scelte, il nostro Sé è formato dalla nostra natura. Il Sé non può essere dominato, anzi deve essere espresso per non danneggiarci, per non reprimerci, e questa caratterizzazione avviene tramite l’Io che porta all’esterno la nostra parte istintuale mediandola con il contesto a cui vogliamo aderire. Nel momento in cui “conosciamo noi stessi” (il grande oracolo delfico lo indica come imperativo se si vuole avere una vita e non solo una sopravvivenza) allora diventiamo ciò che siamo. In questo senso Julian ha mancato.
E’ legato alla madre da un amore malato, edipico, che lo prostra in totale sottomissione senza alcuna possibilità di emancipazione perché manca di quel libero arbitrio necessario per autodeterminarsi. Lo stesso avviene alla presenza di Chang: invece di interrogarlo vuole scontrarsi con esso in una infantile ribellione. Assistiamo cioè alla genesi del “figlio” contemporaneo diviso fra una società che dichiara legittime le pulsioni (anziché reprimerle come nel passato) ma pretende di inserirle in un contesto sociale e di conseguenza le castra, generando sempre una gerarchia in cui una pulsione è più legittima di altre.
In sostanza ciò che intende dirci Refn è che noi figli della modernità siamo castrati fra due input psicologici differenti e finché la cultura non produrrà una nuova sintesi di questi processi saremo sempre dei piccoli Julian legati al nostro sangue, amanti scoordinati e goffi, mai giusti e calmi nei nostri giudizi sul mondo. Non esiste nessuna vena edificante o pedagogica nel film. La Legge prevale con l’uso della forza tramite il dolore e la repressione, non vive di libertà e quindi annienta ogni piacere della vita. Dall’altra parte il sé, la passione, non trovando uno sbocco sano si disperde in atti efferati e eclatanti totalmente incontrollabili.
La vendetta ha radice in ogni disperazione e pertanto anche Julian inizia a covare interiormente pulsioni di violenza e di morte, esattamente come il fratello, ma resta fedele al suo senso di giustizia che in qualche modo lo preserva dalla fine. Aggirandoci attraverso un labirinto di stanze entriamo nell’inconscio traumatizzato del giovane in cui assistiamo a tutte le sue lotte di liberazione interiore, puntualmente sfiorite per accontentare le aspettative ora della Legge ora della Vendetta.
Le conseguenze esteriori: castrazione o esaltazione
Refn sceglie un modo estremamente efficace per dare forma alle conseguenze di queste due forze che agiscono su di noi: inquadra le mani di Julian e degli altri soggetti attivi nella narrazione e ne mostra l’esito. Alcune mani vengono mozzate, altre vengono lasciate libere di agire nella violenza. La mano è presente sin dalla nostra infanzia come segno indelebile della nostra identità (chi non ha mai disegnato il contorno delle proprie mani per vederne la crescita?). Le mani sono la parte del corpo con più terminazioni nervose e sviluppano, non solo uno dei nostri cinque sensi fondamentali (il tatto), ma ciò che ci distingue da ogni altra creatura su questo pianeta: ci permettono di creare e afferrare oggetti. Sono il nostro strumento creativo fondamentale e sono il simbolo dell’espressività per eccellenza.
Molte culture hanno preso la mano come simbolo divino: la mano retta con l’occhio posto al centro è il simbolo ebraico della potenza divina incarnata nei cinque pilastri della sapienza la Torah, mentre i cristiani orientali e gli islamici hanno preso il medesimo simbolo attribuendogli il nome di “mano di Fatima”. Julian attraverserà diversi stadi tutti evidenziati da gesti manuali. Prima si limiterà a guardare le proprie mani, confuso e inerme lascia che i registi del mondo ovvero Chang e sua madre si diano battaglia senza tregua. Stanco della sua passività prenderà l’iniziativa percorrendo un lunghissimo sentiero di consapevolezza.
Julian allunga le mani verso il vuoto sino a giungere alla liberazione sessuale proprio attraverso di esse, vincendo almeno parzialmente il suo complesso edipico. Con le mani, esaltato e frustrato da questo percorso, inizia ad esercitare il proprio potere distribuendo violenza gratuita su alcune persone innocenti. Giungerà poi alla liberazione totale immergendo le mani nella Vendetta e accettando di pagare il proprio conto con la Legge, ma senza alcuna redenzione. Non può esistere redenzione sulla Terra, regno e al contempo prigione delle nostre dicotomie interiori. Per “incontrare il diavolo” Billy sapeva benissimo dove dirigersi: dentro di sé. Il grande dragone mostruoso che troneggia nei combattimenti simbolici è quel luogo interiore in cui ogni mistero viene sciolto solo per tornare all’origine di ogni dolore: la propria psiche.
Questi tre stadi danzano in un perfetto collage di inquadrature statiche, lentissime, che permettono di esaltare i colori simbolici, la musica forzatamente elettronica da Bmovie, esaltare quell’atmosfera difficile da sostenere per uno spettatore che non ha il minimo interesse a fare esperienza di questa storia, pretesto buono e semplice per narrare ben altro. Refn si riappropria di una dimensione classica di narrazione: il teatro greco tragico. La tragedia aveva una funzione puramente curativa esorcizzando i demoni e le paure interiori del popolo greco che aveva raggiunto una conoscenza della psiche profondissima. Seneca diceva, appunto, che per vincere l’orrore (origine di tutti i traumi) bisogna farne esperienza e questo film è un’occasione straordinaria.
Film superlativo.