Vincitore del premio per il Miglior Attore (Vincent Lindon) al Festival di Cannes 2015, La legge del mercato è un’amarissima fotografia del mondo del lavoro, oggi, all’età di cinquant’anni.
La leggere del mercato di Stéphane Brizé è più duro, secco, asciutto di un film dei Dardenne. Quest’ultimi c’hanno regalato, filtrato dal loro occhio sociale, quella perla di Due giorni, una notte dove una giovane donna cercava la solidarietà dei colleghi per non farsi licenziare. Nel film di Brizé il disoccupato è un uomo, si chiama Thierry. All’età di 51, con un figlio disabile, si trova a rincorre un lavoro come Achille e la tartaruga. Corsi, stage, periodi di prova, tempi determinati. Incappa in ogni forma di contratto, ma alla sua età è difficile re-inserirsi.
Stéphane Brizé lo osserva come un osservatore invisibile, si nasconde dietro stipiti come se non volesse essere visto, come a volerci dire che è dura guardare in faccia questa realtà. La legge del mercato è una via crucis di quadri in cui domina la parola, l’attesa, l’incertezza di una risposta che è l’incertezza del lavoro.
La legge del mercato è un film faticoso, sul quotidiano, su stralci di vita rubati per restituirci l’immagine di chi vuole solo lavorare, per sostenere la sua famiglia. È un film che non alza la voce, che non instilla lezioni allo spettatore, invitato ad osservare, capire, riflettere. Giunti in fondo, però, il minimalismo della sceneggiatura (che sa più di vita che di cinema), dell’occhio registico, anche dell’intensa e costipata prova di Vincent Lindon, lasciano il grigiore di qualcosa d’incompiuto. In poche parole, La legge del mercato colpisce col martelletto il nervo scoperto del tema del lavoro, ma il riflesso che ne deriva è debole, parziale.
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