La leggenda dell'uomo-gufo

Creato il 12 marzo 2012 da Zfrantziscu

Nel momento in cui l’attenzione clamorosa dei media ha cambiato bersaglio, trovo il coraggio di aggiungere un modesto parere personale su un piccolo grande uomo.

di Franco Pilloni Erano i tempi deprimenti di un carnevale di guerra. In poche fortunate famiglie si friggeva con lo strutto o con l’olio d’oliva, in altre case ci si arrangiava con l’olio chiaro di lentisco, la gran parte degli uomini e delle donne si contentavano dell’odore che tracimava da porte e finestre chiuse o dai tetti di tegole sistemate a secco su un letto di canne. Per tenersi su col morale, questi ultimi s’inventavano frittelle rosolate e fumanti su cui spargere un velo di zucchero; il meglio stava nell’indovinare l’olio di frittura e il predominante aroma di bucce d’arancia asciugate per tempo al fumo del caminetto e tritate finemente. In un giorno di quelli, in un viottolo del quartiere del porto, più noto dal soprannome del bottegaio all’angolo che dal nome del personaggio storico a cui è ufficialmente dedicato, stante un’aria già mite e senza vento, con l’atmosfera intrisa di odori e di lezzi, in una stanzetta posta sotto il tetto di fianco a una finestrella da cui si vedevano il cielo che a volte tremava e le tegole stanche, venne alla luce una creaturina che aveva gli occhi da gufo, la fronte da gufo, il naso adunco come il becco d’un gufo, la bocca inespressiva e le orecchie che tiravano su come i ciuffi delle penne di un gufo: era nato un bambino-gufo. Ne parlò l’ostetrica per prima, inorridita non tanto dai tratti del viso quanto dalla peluria insistente su tutto il corpicino, ma si contenne sul particolare; ne parlarono le donne; ne parlò chiunque lo vide perché in tanti si recarono a fargli visita, con la scusa di un dono, in danaro o in natura andava bene comunque, visto che la madre era una giovanissima, povera e senza famiglia accertata. A fine serata, nelle osterie del porto volarono contese di stornelli riferiti alla creatura che in attesa di un nome vero fu indicato come Gufo-bambino.
Un giocoliere di circo che, avendo fratturato entrambi i polsi nella caduta rovinosa il giorno in cui finì sotto la bestia che cavalcava, si era ritirato a vita privata e aveva sfruttato la conoscenza andata con una signora che faceva il mestiere e con la quale convolò a giuste e clamorose nozze e che, anche per questo, godeva fama di uomo di mondo, proclamò di prevedere per Gufo-bambino una splendida carriera nello spettacolo. Mai veggente fu più tempestivo e rigoroso di lui, ma tutto questo mutò in certezza da lì a qualche anno, quando il bambino fu cresciuto, diventato un ragazzino con la solita faccia da gufo, il naso adunco e la bocca che rimase inespressiva. Da quando aveva cominciato a sgambettare e a reggersi a quattro zampe per muoversi dentro il rifugio, alzava e abbassava la testina ritmicamente o la girava di lato non senza una certa grazia. Quando fu capace di stare dritto sulle fragili gambette, gli stessi movimenti apparivano molto più coerenti con l’espressione degli occhi ben spalancati, tondi e ben disegnati, con le sopracciglia folte che partivano disinserendosi dalla radice del naso, a porre in rilievo ancora meglio ciò che tutti assomigliavano ad un becco. Gufo-bambino, in vari momenti della giornata, restava da solo nella sua gabbia sotto il tetto, la madre chiudeva la porta da fuori e a lui non restava che ammirare lo spettacolo delle tegole posate in teorie regolari, necessitate da impellenze che gli sfuggivano. La curiosità e l’ impertinenza erano nel suo bagaglio genetico, sopravanzò ben presto l’ostacolo della finestrella e vagò sui tetti ad incontrare pochi gatti e un vecchio gufo. Quando se lo vide dinanzi, il vecchio gufo mormorò un glu-glu da prendere come un “ecco un rompiscatole”, senza infierire nel giudizio in attesa di eventi. Fletté due volte le gambe, preparandosi a un volo di ritirata. Ma quel coso che aveva di fronte non gli parve un pericolo imminente. Invece si sbagliò, non perché corresse dei rischi per la sua vita, ma ne sarebbe uscita stravolta la sua stessa esistenza. Gufo-bambino gli si parò di fronte spalancando gli occhi, al solito. Il vecchio gufo spalancò i suoi di occhi perché mai aveva visto un suo simile così grosso e, per di più, senza penne. Pensò ad una stirpe cugina, ad un gufo di foresta pluviale, infine ad un soggetto alieno o ad una metamorfosi di gufo nipponico per irradiamento da plutonio. Il vecchio orecchiava i comunicati della radio attraverso il fumaiolo ed era sempre ben informato. Prese l’iniziativa e lo squadrò violentemente di sbieco, 45° a sinistra dalla verticale, cambiò inclinazione al suo capo, 45° a destra, fece finta di girare la testa di 360°, con un trucchetto che aveva imparato da piccolo. Gufo-bambino prese a scimmiottare i suoi movimenti, si bloccò solamente al giro completo, fermandosi ai 240° appena e così ristette, come fermato da un torcicollo. Fu il primo incontro e la prima lezione di un’educazione durata anni: per Gufo-bambino fu come apprendere un’altra lingua, un diverso uso del corpo e della voce, che sfociava inesorabilmente in un basilare linguaggio universale. Il carattere più vistosamente assunto fu il vizio di “mettere gli occhi a fanale sugli altri”, come lo rimproverava la mamma di continuo. Ebbe però coscienza piena di se stesso una settimana prima che la mamma lo lasciasse definitivamente da solo. È abbastanza noto che a fronte dell’evento di una nascita, c’è stato per certo un preludio di svariati mesi innanzi: era giugno, la ragazzina pensò di scavalcare l’ultimo giorno di scuola con una sortita in periferia, neanche tanto lontano, ma vicino alla chiesa campestre di santa Gioconda, vicino alla quale,  e confinante col suo cortile, c’era il giardino di Donna Chiara Suadente, con le ciliegie che pendevano rosse dagli alberi, proprio dietro il muro di cinta. Aveva abbandonato i quaderni, infilati dietro lo sportello dell’edicola, sino all’una nessuno li avrebbe trovati. Ora più signorina che studentessa, entrò nella corte della chiesa per vedere se qualche compagno o compagna di classe l’avesse preceduta. Invece no. Decise di esplorare il giardino di Donna Chiara Suadente con uno sguardo panoramico da sopra il muro di cinta divisorio. Vide i ciliegi, vide gli albicocchi, vide tutto quello che c’era da vedere, compresi i gelsi che le fecero pensare ad alberi di rovo senza spine, visto che fruttificavano more.  Vide prevalentemente un grosso uccello appollaiato sull’albero delle ciliegie che le faceva cenno col dito di ammutolirsi e con la mano di avvicinarsi. Molto perplessa, stava decidendo su cosa fare quando scivolò rovinosamente dall’alto del muro verso l’interno del giardino. Gettò un urlo, rimbalzò sul terreno, stava per gridare ancora quando la mano di quell’uccello le tappò la bocca e le intimò con l’indice dell’altra mano di stare zitta, altrimenti sarebbero stati scoperti dal terribile guardiano. Lui le palpò i piedi, poi le caviglie, gli stinchi che erano magri, le ginocchia che erano grosse e chiedeva continuamente “ti fa male qui? Ti fa male qui? E qui?”, le facevano male soprattutto le natiche, ma non aveva intenzione di rivelarglielo, perché non aveva intenzione di tirarsi su il vestito o di farsi palpeggiare in certe parti. Invece il vestito era già sollevato, lei si guardava le gambe là dove lui stava guardandola, ma non le fece effetto alcuno. Effetto di paura, s’intende, o di ansia. Avrebbe dovuto provare repulsione per quel ragazzo che pareva un uccello, che la guardava con occhi tondi come i fanali di una locomotiva, che piegava la testa ora a destra, ora a sinistra, e poi continuava a muovere il busto come se seguisse il ritmo di una musica nascosta. Incrociarono gli sguardi quando lui le si sedette vicino, così d’accanto che sentiva il caldo del suo corpo, della sua mano che le accarezzava i capelli sciolti a cominciare dalla nuca. Si potrebbe continuare, ma si sa cosa avvenne, come andarono a finire le carezze e gli sguardi, se poi ne venne implementata una creatura. Forse era mezzogiorno o forse neppure le undici, fatto sta che si sentì il grugnito inferocito del fattore che correva verso di loro. Se li voleva spaventare, la cosa gli riuscì appieno. Scattarono in piedi come cavallette e cercarono scampo oltre il muro di cinta che però era alto. Lui la prese di peso, si fece poggiare i piedi sulle spalle, la spinse finché non riuscì a saltare oltre, mettendosi in salvo. Aveva perso una scarpa, ma se la vide recapitare per via aerea. Mentre la raggiungeva, il rumore di una schioppettata frustò l’aria e ruppe il silenzio. Come il rumore svanì, di là del muro, nessun segno di vita, né pianti, né lamenti, né rumore di lotta, né di corsa furibonda. Solo silenzio. La ragazza fuggì via dalla campagna con i pensieri che le affastellavano la mente. Non seppe mai cosa fosse successo veramente in quell’angolo del giardino di Donna Chiara Suadente, quella mattina di giugno. Ciò non le impedì di colorire la vicenda ad uso e consumo del suo Gufo-bambino: lei aveva quindici anni, incontrò un bellissimo forestiero che odorava di mare, abile a farsi capire seppure in una lingua strana, si amarono in mezzo ad un bel prato, ma poi ci fu uno sparo che privò Gufo-bambino del suo legittimo padre. La madre tacque e Gufo-bambino impallidì, nascose dentro il suo cuore quella storia che sentiva profondamente sua e disse: “L’ho conosciuto sul tetto”. La madre assentì senza capire. E non sarebbe stata l’unica. Nella sua vita d’artista preconizzato ha raccontato se stesso, la sua storia, la sua procreazione con una canzone che lui intitolò “Gufo-bambino” ma che la censura e l’opera protezione animali censurarono. Si arrese e cambiò il titolo in una data di nascita, la sua. Parlò delle sue scorribande nella piazza più grande che poteva esistere, una piazza lastricate di tegole, frequentata da gatti randagi e da altri gufi come lui. Scrisse anche una lettera al suo migliore amico che lo aveva lasciato un giorno inaspettato; si prese in giro con un altro refrain in cui cantava un simpatico “Attenti al Gufo” che però fu censurato dalla casa discografica sempre per via della paura degli animalisti. E quando lui propose un “Attenti all’UFO”, ci si mise di mezzo la Questura, proibendo la cosa per gli effetti collaterali sulla gente facilmente suggestionabile. Andò via con un “Attenti al lupo”, ma tutti hanno capito che i movimenti della testa, del corpo, degli occhi non sono riferibili al canide, bensì al re alato della notte. È un vero peccato che sia andato via uno che ci ha divertito senza che capissimo cosa voleva dirci, che si divertiva a sua volta squadrandoci bene in faccia, ben cosciente di quanto ci siamo reputati in sintonia con lui, mentre i nostri pensieri, come quelli della mamma, erano ancora di là del muro del giardino dei ciliegi di Donna Chiara Suadente.

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