Kaspar Hauser è prima di tutto un mito, un mito romantico. Un adolescente comparso all’improvviso in una piazza di Norimberga nel 1828, che sapeva dire solo il suo nome e poco altro, incapace di confrontarsi con la realtà perché, a quanto pare, la realtà non l’aveva mai vista, sperimentata.
Fino qui la storia, scritta, letta e filmata innumerevoli volte (da Herzog, innanzitutto, ma è fonte secondaria anche di “Il ragazzo selvaggio” di Truffaut, che sì racconta un’altra storia, ma tratta in fondo lo stesso tema filosofico, quello del rapporto tra ragione ed esperienza). Poi c’è il film di Manuli: finisce l’enigma e inizia la Leggenda. Kaspar Hauser arriva su una spiaggia, anche lui non si sa da dove, non si sa perché. Ci sono degli UFO, ma forse i fatti non sono direttamente collegati, forse sì. Forse è un uomo delle stelle, abbandonato sulla terra.
Il dubbio dell’origine resta, ma quello che è importante è l’identità del personaggio, ripetuta compulsivamente da Kaspar stesso: “Io sono Kaspar Hauser”, e come se non bastasse impresso sulla pelle, indice dell’identità, ma di una identità tutta corporea, di performance, segno di riconoscimento del personaggio prima che della persona. Ma questa volta Kaspar non atterra a Norimberga, nell’austera e filosofica Germania, non diventa Fanciullo d’Europa, realizzazione concreta di un archetipo filosofico, buon selvaggio o simbolo esoterico: niente di tutto questo.
Tutti lo cercano, lo scrutano, lo guardano, vorrebbero avere con loro (e per loro), in questo spazio lunare, il misterioso nuovo arrivato, che forse è un re, forse un santo, forse un imbroglione, o forse niente di tutto questo; tutti tentano di penetrare l’afasia del giovane, di ridurlo a qualcosa di comprensibile e inquadrabile in uno schema, inconsapevoli di un fatto: Kaspar vuole solo essere un DJ, un cavaliere del suono, il suo linguaggio è quello della house music (Kaspar si sveglia ballando, e ha alle orecchie costantemente un paio di cuffie, che fanno sì che danzi di continuo, innanzitutto con se stesso), il suo miracolo, di nuovo forse, è quello di far sì che la gente balli in un deserto fisico ed interiore ad un tempo (il “deserto di idee” di certo cinema contemporaneo?). E forse Kaspar è un nuovo Simon del deserto, corteggiato da molti e non compreso da nessuno, e con quel film condivide una certa idea di tempo sospeso e una cristallina stilizzazione; e non a caso anche la pellicola di Buñuel terminava, ironica e iconoclasta, in un dancing.
Il linguaggio di Kaspar è pre-verbale, il linguaggio della musica, e in particolare della house, genere che necessita una fruizione primariamente corporale, attraverso il ballo; potremmo dire anche che il linguaggio di Kaspar sia, oltre che pre-verbale, addirittura pre-razionale (il Kaspar storico non conosceva che poche parole, il suo cervello era vergine, non ancora organizzato, sezionato dal linguaggio).
Un film, insomma, che apre molte strade e percorre sentieri nuovi e interessanti, che conferma lo straordinario talento visivo del suo autore, capace di trasformare luoghi geografici molto connotati in paesaggi d’un mondo sospeso e popolato da entità immobili, distaccate da sé, eppure costantemente in attesa (beckettianamente) di un fenomeno epifanico, di cui forse non saranno degni, ma che forse sarà soltanto l’ennesimo inganno (un falso profeta, un re con le orecchie d’asino, un principe dei folli, o solo un DJ). In Italia, come al solito, di questo film non si è accorto nessuno (o quasi), ma questo è un altro discorso.
Written by Luca Verrelli
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