La letteratura americana vista oltreoceano: Elio Vittorini

Creato il 21 marzo 2011 da Sulromanzo

Nell’immaginario popolare l’America ha rappresentato, per anni, un luogo mitico, quasi idealizzato. Io sono siciliano e dalle mie parti “andare in America” significa, ancora oggi, compiere un viaggio abissale, assoluto, irreversibile, oltre i confini del possibile, verso una sorta di Eden incomunicabile. È un topos ormai datato, che risale al periodo precedente alla rivoluzione digitale; a quando l’America era ancora lontana un oceano. Lentamente dagli Stati Uniti (perché, da adesso, quelli intenderemo per America) arrivavano in Europa, nella prima metà del secolo scorso, i prodotti di una cultura nuova, ma in fondo anche familiare. Una cultura figlia del vecchio continente, ma andata altrove per rigenerarsi, arrivò sotto forma di musica, cinema, libri e prodotti commerciali. Una cultura che era quella europea, ma che era diventata meno artificiosa, più genuina; si era arricchita di nuova freschezza e «ferocia», di un nuovo spirito di conquista, uno spirito di frontiera e di costante acquisizione. Cultura di infinite possibilità. Dal punto di vista politico, invece, gli Stati Uniti non erano ancora potenza egemone, ma sapevano che lo sarebbero diventati presto. L’Europa non era ancora continente al traino, ma teneva pronto il testimone.

Molti intellettuali guardavano con attenzione alla cultura di quel vecchio, ‘nuovo mondo’; alcuni con freddezza, altri con passione e ammirazione. Fu intorno agli anni Venti-Trenta che la letteratura americana iniziò a circolare anche in Italia ed essenziale fu il contributo di un siciliano nato a Siracusa: Elio Vittorini. Un intellettuale idealista, freneticamente assillato dai suoi «astratti furori», sfiancato dallo stato di smarrimento e sbandamento della classe intellettuale italiana e alla ricerca di nuovi valori, di nuovi possibili appigli. Vittorini vide subito negli autori americani una via di fuga, lo strumento attraverso cui risvegliare un’Italia assopita e narcotizzata, attraverso cui sedare la sua esasperata sete di purezza. Vittorini fu traduttore di autori americani. Plasmò il suo stile su quello loro.

Questi, negli anni Quaranta, pubblicò Americana: un’antologia fortemente osteggiata dal regime. Americana era una raccolta di racconti e stralci di autori americani, che andava dal Settecento agli anni Trenta del Novecento, da Washington Irving a John Fante. Ma Americana era anche racconto essa stessa. Era un viaggio. La prosecuzione di quel viaggio che l’intellettuale Silvestro-Vittorini aveva interrotto alla fine di Conversazione in Sicilia. Il viaggio alla ricerca di una parola fattasi gesto, di una «prammatizzazione della forma», di uno stile capace di scardinare la patina ombrosa della realtà e scendere ben dentro alle cose. Gli autori americani, per Vittorini, erano stati capaci di scendere nel sangue del mondo, avevano trasformato gli «astratti furori» in istinto, la paura in furore di conquista. Melville, Twain, Poe, Saroyan, Hemingway, Faulkner scesero dentro il male del loro tempo, accettandolo ed esorcizzandolo, metabolizzandolo e anestetizzandolo; arrivarono dove i filosofi si erano fermati, dove Thoreau, Emerson e poi Dewey non avevano osato arrivare.

La letteratura americana era – per gli intellettuali alla Vittorini – una letteratura che sapeva dare una risposta autentica ai problemi sociali; meno gravida di vecchie tradizioni e pesanti zavorre, sapeva essere più coraggiosa, più genuina e, in fondo, anche più onesta. Ovviamente, non mancò allora – come non manca adesso – chi dissentiva e rifiutava queste posizioni: Emilio Cecchi in prima linea. Nel complesso, però – per una nutrita schiera di scrittori, critici e intellettuali –, la letteratura americana fu enorme deposito di spunti e opportunità nuove. Fu il percorso da seguire per creare un panorama letterario e culturale fresco e di rinnovamento, all’interno del quale poter affrontare i problemi della propria epoca e dare sfogo agli interrogativi della propria arte. Per questi scrittori la letteratura americana rappresentò, citando Pavese, «il gigantesco teatro dove, con maggiore franchezza che altrove, veniva raccontato il dramma di tutti». Per loro, quella fu davvero «una letteratura universale in una lingua sola».


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