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La lezione del Cardinale Martini, il Federigo Borromeo degli anni '80-'90

Da Mirella
Se Carlo Maria Martini fosse stato eletto Papa, forse la Chiesa Cattolica avrebbe affrontato i temi cruciali che ha evaso in almeno un secolo, fermando il destino di irrilevanza cui si è autocondannata, per ottusità e presunzione. Ma non soffermiamoci solo sul sondino rifiutato dal Cardinale, impossibilitato, in fin di vita, a deglutire a causa dell'avanzamento del Parkinson (la malattia che lo stava spegnendo ma non piegando), anche se dopo il "caso Englaro" e quello "Welby" ci rendiamo conto dell'importanza del diritto all'autodeterminazione e al testamento biologico, in versione liberale.
Il testamento spirituale del Cardinale è in realtà stigmatizzato da tutta la sua vita, a partire dal periodo dell'arcivescovado meneghino, in periodi bollenti e travagliati per il capoluogo lombardo, sconquassato dal terrorismo, da Tangentopoli e da segni di xenofobia. E viene spontaneo, allora, rispolverare le parole di Alessandro Manzoni per quell'altro arcivescovo, Federigo Borromeo, che nel '600 - in una Milano prostrata dalla peste, dalle grida dei Bravi, dall'occupazione spagnola - "fu uno degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grand'opulenza, tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell'esercizio del meglio". Come il Borromeo ai suoi tempi, Martini ha donato una lezione per l'establishment milanese, lombardo e del Nord-italia, con l'accento di un piemontese qual era Martini. Speriamo che Milano ascolti questa voce colta e forte, perché riscopra l'esprit della borghesia meneghina che nei secoli ha reso l'Italia più moderna, innovativa, accogliente e laboriosa.
(Scritto da un'agnostica, M.C.)

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