Ieri sera ho visto “Howl”, il film sulla vita e le poesie di Allen Ginsberg, e scrivere un post dopo una tale esperienza mi risulta piuttosto difficile.
Non capisco nulla di poesia e non conoscevo l’opera di Ginsberg, ma la potenza dei suoi versi unita alla efficacissima lettura che ne danno i registi Rob Epstein e Jeffrey Friedman, nonché all’ottima prova d’attore di James Franco, ha agito sul mio inconscio come una schiacciasassi frullante, e mi si è riproposta nel corso di tutta la notte impedendomi di riposare e riempiendomi il cervello e l’anima di domande e rodimenti.
Scrivo da oltre quindici anni, non so quante volte le mie parole, messe l’una in fila all’altra, potrebbero ricoprire la circonferenza della terra, ma stamattina ho come la sensazione che l’insieme di tutte le mie frasi non abbia l’intensità di un solo rigo di Ginsberg.
Ma a turbarmi non è tanto questo – so far pace velocemente con la mia mancanza di talento – quanto il potere che la poesia ha di farti sentire un idiota superficiale intorpidito dai narcotici del vivere sociale.
Le parole di Ginsberg e le straordinarie animazioni che le accompagnano nel film (da vedere al cinema, non certo nello spazietto castrato di uno schermo tv), senza che quasi tu te ne accorga, ti sbattono addosso un senso del reale allo stesso tempo meraviglioso e inquietante, ti svegliano addormentandoti, e tu acquisti lucidità mentre perdi il senso dell’orientamento.
Così è durissima tornare allo scrivere posticcio e usa-e-getta di un blog, al linguaggio plastificato, televisivo e fasullo che tutti ci siamo abituati a leggere, e che a volte ci appare persino geniale, quando in realtà è comunicazione fatta per coprire e occultare anziché per svelare e rivelare.
E messo di fronte alla palese verità che uno come il sottoscritto, per quanto bene possa scrivere, non avrà mai la potenza dirompente di un poeta come Ginsberg, mi viene da chiedermi se possa esistere, oggi, qualche scrittore capace di raggiungere quei livelli di forza evocativa. Perché, con il progressivo svuotamento del senso primo della scrittura e dell’opera letteraria, con la trasformazione dell’editoria in industria filotelevisiva che mutua il linguaggio e le idee anziché crearlo, e che prende in prestito le idee di successo per farne soldo anziché esplorare l’ancora sconosciuto, sarà difficile che un nuovo Ginsberg, anche esistesse da qualche parte nel mondo, possa essere conosciuto dalle masse.
E la cosa un po’ deprimente e spiazzante è che, paradossalmente,i bigotti anni ’50, con tutte le loro censure e le loro repressioni, permettevano a un Ginsberg di venir fuori e a un Ferlinghetti di condurre una battaglia giudiziaria e politica per pubblicarlo, mentre al contrario questi nostri anni di libertà, aperture mentali e occasioni date a tutti, cancellano l’individuo appiattendo tutto per trasformarlo in merce di consumo.
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