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La lezione iraniana per gli Arabi: il necessario dialogo dentro la civiltà

Creato il 29 aprile 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
La lezione iraniana per gli Arabi: il necessario dialogo dentro la civiltà

Il testo seguente è la traduzione italiana del saggio redatto dalla politologa irano-portoghese Ghoncheh Tazmini e letto in occasione della conferenza “Thinking Out of the Box“, svoltasi a Braga e Oporto il 21 e 22 febbraio scorsi nell’ambito del progetto NEPAS patrocinato dall’IsAG.

 

Introduzione

Le rivolte che hanno interessato gran parte del mondo arabo negli ultimi due anni hanno introdotto notevoli cambiamenti nella regione, come la deposizione di capi di Stato in alcuni paesi e la seria destabilizzazione di alcuni regimi in altri. Secondo alcuni analisti l’Iran sarebbe il principale beneficiario dell’instabilità regionale, a causa della “caduta dei regimi arabi filoamericani nella regione, dell’ardito popolo arabo furioso con Israele e ostile alla politica estera statunitense, e a causa della crescente assertività degli Sciiti” (Bajoria 2011). Essi sostengono inoltre che l’ascesa dell’Islam politico nel mondo arabo abbia spostato l’ago della bilancia in favore di Teheran. Diverse analisi sul mondo arabo post-rivoluzionario contengono molti riferimenti a “mezzelune islamiche” e alla Repubblica Islamica dell’Iran, casualmente indicata come precorritrice dei tempi. Vi è inoltre la tendenza a gonfiare e speculare notevolmente sul fatto che l’Iran stia usando tutte le risorse a sua disposizione per manovrare e ostacolare le transizioni democratiche nel mondo arabo.

In questa analisi, non mi limiterò a esaminare il ruolo dell’Iran nella primavera araba soltanto come rivale strategico o come potenza regionale. Da questo paese si possono trarre lezioni che non sono necessariamente la rivoluzione islamico-iraniana del 1979 o il cosiddetto Movimento Verde del 2009. Attingerò alla presidenza di Mohammad Khatami (1997-2005) durante la quale il presidente riformatore dovette rispondere alle richieste di riforme sociali e politiche progressiste all’interno di un contesto teocratico islamico. Avanzerò inoltre la proposta di un “dialogo interno alla civiltà” a base molto ampia, come contesto in cui tutti i segmenti della società araba post-autoritaria – Islamisti, conservatori, liberali, laicisti, giovani e gruppi minoritari – discutano insieme sull’integrazione di prassi e tradizioni indigene e “nativistiche” con istituzioni più moderne e democratiche. Sosterrò inoltre che l’Unione Europea può agire nella costruzione del consenso incoraggiando le società arabe post-autoritarie a spianare il proprio cammino verso la modernità perseguendo una strategia di “adattamento autonomo” alle nuove realtà politiche e sociali. Sostengo inoltre che una simile impresa rappresenta un processo a lungo termine che non può essere giudicato sulla base di una stagione, ovvero di una “primavera”.

La rivoluzione iraniana e la primavera araba

L’eventuale ruolo precursore dell’Iran rispetto gli eventi della primavera araba è oggetto di discussione. Le visioni si dividono su quale Iran abbia ispirato gli eventi accaduti in Tunisia, Egitto, Libia e in altri paesi. Si tratta, come sostengono alcuni funzionari iraniani, della rivoluzione del 1979, che depose Mohammad Reza Pahlavi, oppure delle proteste di massa che, alimentate da Twitter e Youtube, si riversarono nelle strade di Teheran e di altre città subito dopo le contestate elezioni presidenziali del 2009? La maggior parte degli osservatori ha prontamente parlato di analogie tecnologiche tra la rivolta iraniana del 2009 e la Primavera araba – con particolare riferimento alla tecnologia all’avanguardia e agli strumenti di rete sociale utilizzati per la mobilitazione delle masse e l’organizzazione delle proteste. In realtà il ruolo della tecnologia delle comunicazioni fu decisivo anche nella Rivoluzione iraniana del 1979. L’Ayatollah Khomeini, allora in esilio, riuscì a mobilitare, in un paese in via di sviluppo e prevalentemente rurale, milioni di persone con l’uso di audiocassette. I sermoni e i messaggi dell’Ayatollah, registrati durante l’esilio in Iraq e successivamente in Francia, furono introdotti di contrabbando in Iran. Qui, i collaboratori dell’Ayatollah all’interno dell’istituzione religiosa fecero in modo che le audiocassette fossero ampiamente copiate e distribuite. Esse divennero il simbolo tecnologico della rivoluzione del 1977-79.

Le rivolte arabe e la rivoluzione iraniana hanno un’altra importante analogia; sono entrambe dei movimenti popolari che hanno sradicato con successo dittature filooccidentali di lunga data. Dopotutto, Zine El Abidine Ben Ali e Hosni Mubarak erano alquanto paragonabili allo scià; re dei re, dipendenti dagli Stati Uniti e scettici verso la responsabilità democratica. Inoltre, analogamente alle rivolte arabe, la rivoluzione iraniana fu in origine eterogenea nella sua composizione. La rivoluzione “islamica” ha riunito infatti gruppi disparati dai diversi programmi politici, tra i quali socialisti laici dichiarati, comunisti, democratici liberali, nazionalisti democratici, femministe ed ecclesiastici sciiti moderati, provenienti da ogni classe sociale, il cui unico obiettivo comune era il desiderio di rovesciare l’autocratico scià. I sostenitori dell’Ayatollah Khomeini, grazie a una migliore organizzazione e a maggiori finanziamenti, riuscirono a mettere ai margini i gruppi laici, i sindacalisti e le fazioni islamiste più liberali con l’intento di creare una società islamica più giusta e indigena. Anche nel caso delle rivoluzioni arabe, sebbene siano stati i liberali e i laici a guidare i movimenti popolari, il potere è stato conquistato dai partiti islamisti.

La lettura iraniana delle rivoluzioni arabe: un risveglio islamico?

La dirigenza iraniana è stata inequivocabile a proposito delle rivolte arabe. Il resoconto espresso da Teheran è che la primavera araba non sia necessariamente un movimento socio-politico che mira a democratizzare le società arabe quanto piuttosto un “risveglio islamico”. Secondo la guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, il Parlamento, il potere giudiziario e i capi della preghiera del venerdì, le rivolte arabe hanno rappresentato un “diffuso risveglio delle nazioni diretto verso obiettivi islamici” (Rafati 2012, p. 50). Secondo questa visione, l’ondata che ha travolto il Medio Oriente e il Nord Africa si fondava sul ritorno di obiettivi e valori islamici. Il 17 settembre 2011, Teheran ha ospitato la Prima Conferenza Internazionale sul Risveglio islamico, che ha affrontato diversi argomenti, tra i quali la necessità di restaurare la dignità nazionale e islamica dei paesi musulmani; la creazione di una nuova civiltà islamica fondata su base religiosa e razionale; e la presentazione della democrazia islamica come alternativa alla democrazia occidentale. A Teheran è stato inoltre istituito il segretariato permanente della conferenza.

Ricorrendo alla retorica del “Grande Risveglio Islamico”, i sostenitori di questa tesi cercano di stabilire analogie tra la ragion d’essere del regime iraniano e le proteste, non solo come correlazione da usare e da sfruttare ma anche come causalità. La dirigenza iraniana crede fermamente che il “Grande Risveglio Islamico” sia influenzato e ispirato alle idee islamiche radicali e rivoluzionarie prodotte dalla rivoluzione iraniana del 1979. Secondo la dirigenza e i mezzi di comunicazione iraniani, gli arabi erano contro Hosni Mubarak in Egitto, Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia e il resto dei capi di Stato arabi, non tanto perché fossero dei dittatori spietati, ma in quanto filo-occidentali. Sulla base di questa visione, i buoni rapporti di Mubarak con Washington hanno causato maggiore scontento tra il popolo egiziano rispetto al fatto che l’ex presidente chiudesse i suoi oppositori in prigione o che omettesse di tenere libere elezioni. Gli arabi, come sottolinea la dirigenza iraniana, non chiedono cambiamenti democratici, quanto piuttosto l’indipendenza dagli Stati Uniti e dallo Stato ebraico.

Nel complesso l’ordine post-americano emergente è visto con grande ottimismo in Iran. Gli strateghi iraniani infatti ritengono che governi più sensibili alle necessità delle loro società produrranno politiche estere più favorevoli alla causa palestinese e all’Iran, e dunque meno compiacenti nei confronti degli Stati Uniti e di Israele (Adib-Moghaddam 2011). Altri analisti sostengono invece che le rivolte arabe siano state dannose per l’Iran; in particolare, Tehran avrebbe subìto una perdita di soft power e di popolarità inimicandosi la piazza araba, in particolare alleandosi con la Siria, e per estensione con il giro di vite sui manifestanti. Ciò, secondo gli analisti, avrà enormi implicazioni in caso di caduta del regime di Bashar al-Assad. Secondo questi osservatori sarà più difficile per le nuove democrazie che legittimano l’opinione pubblica allacciare rapporti con l’Iran. Resta da vedere se il regime di Assad cadrà, o se una sola democrazia sarà effettivamente istituita nel mondo arabo.

La rinascita islamica

L’interpretazione della Primavera araba come di un “Risveglio islamico” fornisce più elementi di quelli che molti analisti vorrebbero riconoscere. Rifiutare istintivamente gli eventi, non definendoli un “risveglio islamico” solamente perché un Ayatollah iraniano ha scelto questa espressione e perché si concorda con l’aspirazione velleitaria dei movimenti democratici liberali, non è utile a una corretta comprensione del mondo arabo. Sebbene appaia inverosimile l’idea che le rivolte arabe siano modellate sulla Rivoluzione islamica del 1979, l’affermazione che le attuali rivoluzioni arabe debbano gran parte del loro successo alla rivoluzione iraniana necessita di un’analisi accurata invece di essere scartata con supponenza. L’Islam politico, un fenomeno oggi innegabile, si rese presentabile inizialmente con la Rivoluzione del 1979, un’epoca in cui il mondo arabo era saturo di arabismo nonché di ideali socialistici e nazionalistici. In effetti la Primavera araba è divenuta una piattaforma di lancio per il predominio politico islamista. L’Islam si è rivelato determinante in tutti i paesi della regione. Come si spiega il successo degli islamisti alle elezioni? Ascher Susser esprime un’interessante osservazione: “La realtà virtuale e l’influenza nel cyberspazio sono state confuse con il vero potere politico, così i movimenti di massa privi di guida che non hanno prodotto né strutture politiche coerenti né politiche ben articolate, hanno incontrato grandi difficoltà nel trasformare l’influenza virtuale in forza politica tangibile” (2011). Pertanto, le forze più tradizionali, meglio organizzate e più ideologicamente coerenti della politica mediorientale, come gli islamisti o l’esercito, sono riuscite a prendere le redini del potere.

Il passaggio dalla tradizione alla modernità

Sebbene l’Islam resti un fattore importante, le cause che hanno provocato le rivolte arabe non sono di natura religiosa ma piuttosto fattori politici e socio-economici quali dittatura, oppressione, nepotismo, diseguaglianza sociale, povertà strutturale e cambiamenti demografici. È paradossale come nella serie di rivolte della Primavera araba non ci fosse nessun riferimento alla religione, e nessun richiamo al panislamismo, panarabismo, o alla causa palestinese. Questo è un aspetto interessante da osservare, poiché le rivolte sono avvenute praticamente tre decenni dopo quella che è stato definita la reislamizzazione delle società arabe (la rinascita di atteggiamenti, pratiche e simboli religiosi). Ancora più ironico è il fatto che i partiti islamisti siano giunti al potere attraverso il processo democratico fatto di elezioni libere e regolari. Ciò dimostra la natura complessa e paradossale delle rivolte arabe. La mia tesi al riguardo è che vi sia un’ampia serie di richieste politiche ed economiche, che si intrecciano con disparati orientamenti ideologici e tendenze sociologiche. Con l’ascesa politica dell’Islam, la società araba dovrà riconciliare tradizione e dogma con la realtà dei movimenti di emancipazione. La sfida che la attende è quella di adattare le prassi indigene e “innate” con norme e istituzioni più “liberali”, “democratiche” o “moderne”.

Si inserisce qui il ruolo dell’Islam in politica accanto ad aspetti specifici del processo democratico e della costruzione dell’istituzione (il sistema multipartitico, la partecipazione femminile al processo politico, la costruzione della coalizione, l’uguaglianza delle minoranze e la libertà di religione). Una volta consolidato il potere, gli islamisti lasceranno che gli altri gruppi prendano parte liberamente e regolarmente alle elezioni? In che modo gli islamisti andranno incontro alle esigenze di una società più ampia comprendente laici, liberali, minoranze religiose, e donne? La sharia (legge islamica) costituirà la base delle nuove costituzioni e accetterà lo status secondario all’interno della normativa di una legislatura democraticamente eletta? La società civile corrisponderà a quella presente nelle società laiche e liberali, oppure assumerà un’espressione diversa nelle società arabe? Quale forma istituzionale prenderà il pluralismo con gli islamisti al timone?

Il rinnovamento islamico

Non esistono risposte semplici a queste domande, e si dovranno tenere molti dibattiti e discussioni che coinvolgano tutti i segmenti della società nella forma di un dialogo interno alla civiltà. Poiché molte di queste domande riguardano l’Islam e la sua democrazia, occorre intraprendere un rigoroso progetto ermeneutico all’interno di questo dialogo. Esistono molti Islam, così come esistono molte forme di Cristianesimo – l’Opus Dei, la Teologia della Liberazione, il Papato e il Protestantesimo con le sue propaggini. Di quale Islam si sta parlando? L’interpretazione dunque è il fulcro del dialogo proposto. Per questa ragione propongo una valutazione ermeneutica estensiva delle strutture di comprensione ereditarie. Viene allora in mente il celebre pensatore algerino Mohammad Arkoun che ha cercato di espandere proprio la definizione e la concezione dell’Islam e di estenderla a quegli aspetti della tradizione che si prestano al progetto liberal-democratico. Arkoun nega fermamente la validità di ogni singola concezione di “vero Islam”. Rifiuta inoltre ogni fondamentale differenza tra valori occidentali e valori culturali islamici, presentando l’Islam come una forza culturale dinamica e complessa in piena evoluzione e priva di prospettive fisse. Secondo un altro teorico contemporaneo, l’intellettuale islamica Fatima Mernissi, l’Islam offre modelli sia democratici sia autoritari, che possono essere coltivati o contenuti in base alle necessità della società moderna. Questo genere di discorsi è estremamente utile per le società a maggioranza musulmana che affrontano una transizione. Una componente importante del “dialogo interno alla civiltà” proposto è un approccio ermeneutico comprensivo che individui soluzioni alla sfida della modernità all’interno di testi e di strutture islamiche considerando che gli elementi democratici e antidemocratici dell’Islam possono essere coltivati o limitati in base alle necessità del periodo (Mirsepassi p. 22).

In questa “primavera” araba, l’Islam ha l’opportunità di affrontare un cambiamento stagionale e di rinnovarsi alla luce di nuove realtà politiche. I gruppi islamici si sono trovati in un “momento” storico unico in cui hanno dovuto sperimentare il loro impegno per la democrazia. Nel mondo arabo è in corso un’evoluzione indubbiamente storica che unisce definitivamente l’Islam ai principi universali di libertà, democrazia e uguaglianza sociale. Finora gli indicatori sono stati positivi. I partiti islamisti/islamici moderati hanno preso parte alle elezioni parlamentari in Marocco (con il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), in Giordania (con il Fronte di Azione Islamica), nello Yemen (con al-Islah), in Kuwait (con il Movimento per la Costituzione Islamica) e come indipendenti in Egitto. In Tunisia, Rachid Ghannouchi, leader del partito Ennahda, sostiene da anni la compatibilità tra Islam e democrazia, affermando come il suo partito non intenda imporre la legge islamica, lo hijab, né la messa al bando dell’alcol. (Tuttavia, in merito a queste questioni, segnali diversi giungono da alcuni islamisti che vedono tali provvedimenti come necessari per un programma alternativo a lungo termine). I Fratelli Musulmani in Egitto e il loro Partito per la Libertà e la Giustizia hanno abbracciato il pluralismo e l’antiestremismo e hanno dovuto impegnarsi apertamente con altre forze politiche e lavorare all’interno dell’istituzione statale e con maggiore trasparenza. In Egitto anche i salafiti hanno preso parte alla politica convenzionale, ovvero, hanno accettato il processo elettorale dopo decenni trascorsi a denunciare la democrazia come anti-islamica o kufr (miscredente). Hanno finito per adottare lo stesso approccio dei Fratelli musulmani, che fino a quel momento avevano respinto. Resta da valutare se tale mutamento sia stata più una mossa affrettata e di convenienza piuttosto che una naturale evoluzione ideologica. Ma dopotutto il bisogno di adattarsi, e di adeguarsi, a una nuova realtà era piuttosto forte. Molti salafiti, specialmente i partiti politici, sono disposti a lavorare con i Fratelli Musulmani verso obiettivi comuni quali la promozione della transizione democratica e il contenimento di tendenze radicali e militanti. Tale adattamento è alla base di una trasformazione duratura e sostenibile nelle società arabe post-autoritarie.

Gli Stati arabi post-autoritari stanno vivendo un “momento” storico, nel quale sono spronati a ricercare una strategia di sviluppo più integrativa e adattativa. Secondo Arshin Adib Moghaddam l’Islam sta prendendo atto della propria forza sociale e culturale latente, trasformandosi in un “Islam postmoderno”, ovvero è in atto un distacco radicale dall’”Islamismo” deterministico, totalitario delle generazioni precedenti. Egli è convincente nel sostenere che ci troviamo in un momento storico che preannuncia di spazzare via il grave pregiudizio secondo il quale esiste un’indole araba o musulmana inerte e incline all’autoritarismo. Effettivamente prima che la situazione in Tunisia esplodesse, l’idea dominante era che le società musulmane fossero soffocate dal radicalismo e che al-Qaeda fosse una forza politica vitale. Lo scorso decennio, nella lotta contro il “radicalismo islamico” sono state destinate ingenti risorse alle guerre in Iraq e Afghanistan; alla strategia di cambio di regime in Iran, Siria, Libano e Gaza; e agli immensi bilanci militari e a molti documenti di sicurezza nazionale. Una profonda trasformazione sta ora rivelando i difetti di questo approccio. È proprio l’evoluzione dell’Islam un fattore chiave di questo processo di rinnovamento.

La modernità endogena

In ogni caso, quelle che abbiamo nel mondo arabo sono delle democrazie fragili. In quanto tale l’Europa deve ridefinire il suo rapporto con l’Islam politico e con i gruppi islamisti; deve inoltre agire come un “costruttore di consenso” e non come una forza scissionista che appoggia le forze laiche contro i partiti islamisti e marginalizza i gruppi liberali in nome del pragmatismo politico. Maha Azzam segnala come controproducenti e datate la retorica e la pratica del sospetto e dell’esclusione degli islamisti. Ritiene inoltre che sia forse giunto il momento di liberarsi completamente del termine “Islamismo” e di parlare dei partiti politici sulla base dei loro programmi politici ed economici (2011). L’Unione Europea deve incoraggiare le società arabe post-rivoluzionarie a impegnarsi in un dialogo tra le civiltà, o in un “dialogo interno alla civiltà”. Inoltre, l’UE dovrebbe riconoscere che le società arabe avranno bisogno di tempo e risorse per affrontare questi problemi e per soddisfare le richieste di norme e istituzioni “moderne”, “liberali” o “di ispirazione occidentale” in un contesto tradizionale. Non deve sorprendere che questi Stati andranno incontro a evoluzioni e adattamenti continui in base alle richieste politiche, alle sfide economiche, ai cambiamenti demografici, nonché alla necessità di funzionare e di integrarsi a livello globale. In altre parole, il mondo arabo sta riscrivendo la propria storia – un compito che deve essere svolto sistematicamente a livello locale e senza l’interferenza occidentale. La “Primavera araba” può ancora rivelarsi tale, ma la sua natura deve essere decisa dalle società arabe e posta sotto il loro controllo. Come spiega Simon Murde, lo sviluppo di un modello politico è un processo complessivo e non può essere attuato dall’oggi al domani. Nel sostenere questa argomentazione, egli fa riferimento all’evoluzione del liberalismo in occidente:

Il liberalismo non fu mai applicato in una forma ideale. Le idee liberali stabilirono tendenze influenti nei sistemi politici ed economici dell’Europa e del Nord America, ma hanno sempre proceduto accanto ad altre forme di convinzione e prassi. Il liberalismo era variamente compatibile con il Cristianesimo, la monarchia, la classe sociale, lo status, la nazione e lo Stato … La gente poteva aspirare a ideali liberali mantenendo elementi delle proprie convinzioni preesistenti. Conciliare il liberalismo con le ideologie ha talvolta causato tensioni all’interno e tra le società, ma gli occidentali hanno vissuto a lungo con queste contraddizioni (Murden 2002, p.1-2).

Fred Halliday avanza un’argomentazione simile:

Fukuyama, come molti in occidente, ha sovrastimato il modo in cui molti Stati hanno conseguito la democrazia … In primo luogo, la storia economica di alcuni; sebbene alcune società nel mondo si fossero anche avvicinate al modello di libero mercato della teoria liberale, lo sviluppo di Giappone, Singapore, Corea e prima ancora quello della Germania e della Gran Bretagna ha dipeso principalmente dall’intervento dello Stato … In secondo luogo, la democrazia non fu un evento improvviso, radicale … ma un processo graduale, durato decine e centinaia di anni: alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti servirono trecento anni e tre guerre interne in totale per passare dalla tirannia al tipo di democrazia qualificata di cui godono attualmente. In terzo luogo, la politica liberale non è un atto unico, che conferisce definitività a un sistema politico. Nessuno può avere la certezza che una democrazia sia abbastanza stabile se non è stata instaurata da almeno una generazione – molte sono comparse solo per scomparire (Halliday 2005, p. 159).

La costruzione dell’istituzione è un processo a lungo termine, pertanto non si può giudicare la “Primavera” araba sulla base di una stagione. Adib-Moghaddam rafforza questa asserzione spiegando che il Medio Oriente, soggiogato e colonizzato per decenni, sta assistendo all’indipendenza e alla trasformazione verso un ordine non coloniale. Il Medio Oriente, sostiene, è una “designazione euroamericano-centrica”, definita e immaginata dalla prospettiva europea e statunitense. Inoltre, è la regione che rafforza la pretesa occidentale di egemonia, “riscrivendo la dipendenza proprio nella coscienza delle persone e dei governi che agiscono in quell’area”. L’”intifada” (rivolta) araba, come lui la definisce, indica la fine del Medio Oriente, “che si traduce nella fine della dipendenza dall’occidente”. “Essi non hanno bisogno di noi per darsi degli ordini e per tormentarsi con la nostra saggezza paternalistica. È questo quello che la guerra in Iraq e le rivolte avrebbero dovuto insegnarci” (2011).

Abbandonare l’etnocentrismo

Secondo l’argomentazione proposta le transizioni politiche impiegano anni per svilupparsi a seconda delle peculiarità di ciascuno Stato. Il teorico politico Charles Taylor osserva come al giorno d’oggi si parli di “modernità multiple”, in cui il plurale riflette il fatto che altre culture non occidentali si sono modernizzate a modo proprio, e non è possibile comprenderle adeguatamente se si cerca di inserirle in una teoria generale, originariamente ideata sulla base del caso occidentale (2012). Il punto è che le descrizioni dominanti della modernità si incentrano sull’esperienza storica europea. La modernità è collocata in un contesto di riferimento occidentale, con un centro dominato dall’occidente. La maggior parte del mondo occidentale vede pertanto il “resto” o gli “altri” attraverso lenti eurocentriche. Ne deriva una tendenza dominante a omogeneizzare il mondo, che alcuni sostengono essere una copertura per forme sottili di dominazione neocoloniale.

All’inizio della Primavera araba, l’UE ha prontamente parlato delle rivolte come di una “ondata democratica”, che stava avvenendo in 4 fasi: essa ha causato la caduta delle dittature in Portogallo, in Grecia e in Spagna negli anni Settanta, successivamente in America Latina e in Asia negli anni Ottanta e Novanta, seguite dall’Europa orientale e da altri paesi negli anni Novanta; e si è infine propagata nel Mediterraneo e nel mondo arabo (Vasconcelos 2011). Ciò che è divenuto evidente è che le rivoluzioni democratiche non producono automaticamente istituzioni democratiche. Non esiste uniformità globale quando occorre modernizzare le strutture politiche. La storia ci ha insegnato che la modernità non può essere mutuata, imposta oppure “copiata e incollata”. Come ricorda Ali Mirsepassi, “la modernità non è un oggetto o un progetto già completo che necessita semplicemente di essere acquistato o venduto. È un fine verso il quale procedere unicamente sulla base del dialogo e dell’accordo collettivo..” (2010, p. 189). Occorre promuovere a livello globale il riconoscimento dell’eterogeneità delle esperienze di modernizzazione1. Secondo il commentatore conservatore inglese David-Pryce Jones l’idea che gli arabi aspirino alla libertà e alla democrazia mediante l’abbattimento del loro muro di Berlino, è una “fantasia eurocentrica” fondata sull’incapacità di comprendere come funzionano effettivamente le altre società (Pryce-Jones 2012). Sebbene si tratti di un’affermazione piuttosto forte, la realtà è che le società arabe post-rivoluzionarie devono tracciare il proprio percorso di sviluppo in base alle diverse esperienze storiche, rivoluzionarie, culturali e religiose (senza interferenze, pressioni o sabotaggi esterni).

Il punto è che la modernità è stata dipinta come un’ideologia dell’esclusione basata sull’esperienza culturale europea. La verità è che il mondo non occidentale non ha vissuto il Rinascimento, la Riforma o l’Illuminismo (con le sue propaggini democratiche), perciò lo sviluppo e la modernità non possono assolutamente assumere lo stesso significato nelle società e nelle culture non occidentali. Fin a quando gli Stati dominanti del Nord Atlantico e dell’Europa occidentale non accetteranno che la modernità ha molteplici traiettorie, lo sviluppo nel mondo arabo resterà polarizzato. L’”Occidente” deve contenere il suo impulso a egemonizzare “l’altro”. Occorre abbandonare la logica unilaterale in favore di un autentico incontro interculturale che adotti una visione più ampia della “transizione democratica”, collocando il processo nel contesto, di lungo termine, di adattamento culturale di insiemi di civiltà alla sfida di democratizzazione e modernizzazione. Parlare, ad esempio, di “condizionalità dell’aiuto” come un modo per accrescere l’influenza sui paesi donatori, ha connotazioni particolarmente dispotiche e punitive. Shadi Hamid del Centro Brookings di Doha avanza la seguente proposta: “..se lo scopo è fare pressione su governi riluttanti e incoraggiare la democratizzazione vera e duratura … ogni assistenza economica futura deve dipendere dalla dimostrazione del progresso secondo indicatori politici chiave, tra cui il trasferimento del potere alla norma civile e il rispetto per la società civile” (2012). Un simile approccio produrrà soltanto scontento; occorrono strategie molto più creative per la costruzione della fiducia e ciò ha inizio con il riconoscimento del fatto che la democratizzazione non può essere controllata o accelerata attraverso misure negative.

Lezioni dall’Iran

Sentiamo spesso parlare dell’Iran e della Turchia come modelli di emulazione per gli Stati arabi post-rivoluzionari. In effetti, entrambi i paesi e i relativi modelli politici rappresentano esempi da seguire. Può apparire un’affermazione controversa ma sostengo che ogni Stato debba creare la propria modernità indigena ed endogena. È quello che hanno fatto l’Iran e la Turchia. La Repubblica islamica dell’Iran è un sistema politico sui generis; è il prodotto della propria esperienza di civiltà particolaristica, storica, culturale e rivoluzionaria. Dall’occidentalizzazione promossa dallo Stato nell’Iran imperiale, alla creazione di una modernità non occidentale nella forma di una teocrazia islamica nell’Iran post-rivoluzionario, gli esperimenti iraniani, dal punto di vista della trasformazione socio-politica, rivelano un incontro disorientante e spesso contraddittorio con la modernità e lo sviluppo. L’Iran post-rivoluzionario ha visto il tentativo dell’Iran di allontanarsi dai percorsi falliti in passato, verso una modernità di tipo semplice. Nel 1997 Khatami ottenne oltre il 70% del voto popolare grazie a temi quali la riforma democratica, la società civile, il pluralismo e lo Stato di diritto. La sfida di Khatami era di conciliare, in modo peculiare, le riforme “moderne” o di orientamento occidentale con la preoccupazione radicata nel sistema tradizionale di una possibile “intossicazione occidentale”2. Khatami capì che le sue riforme dovevano essere introdotte cautamente e in maniera ponderata. Comprese inoltre l’importanza di continuare con riforme progressiste all’interno del modello culturale e politico islamico esistente. La strategia di sviluppo di Khatami si basava sull’adattamento della forma di modernità occidentale a elementi locali e tradizionali. Sebbene le idee politiche prodotte sotto la sua direzione non seguissero uno schema complessivo costante, erano tuttavia caratterizzate da una profonda dedizione verso obiettivi e metodi democratici. La politica di Khatami confutò in tutta evidenza quelle teorie autorevoli, mitiche e antropologiche che sottolineavano la passività e l’innato autoritarismo delle culture e delle società islamiche.

I successi piccoli ma significativi di Khatami furono in gran parte offuscati da un’impasse istituzionale che ostacolò molti dei suoi sforzi volti all’attuazione del cambiamento. Tra il 1997 e il 2005, i tentativi di riforma vennero soffocati dalle dispute interelitarie tra integralisti conservatori, che dominavano le tradizionali fonti di potere economico e culturale, e gli elementi della società aperti alle riforme. Khatami non fu in grado di manipolare la struttura politica o di ricucire le fratture politiche che avevano ostacolato il suo progetto di cambiamento (Tazmini 2009, p. 2). Se Khatami avesse promosso un dialogo più estensivo, critico e interattivo tra i segmenti della società prima di iniziare il suo progetto di riforma, probabilmente l’opposizione conservatrice sarebbe stata molto meno rigida. Il presidente riformatore sottovalutò quanto fosse importante definire e descrivere in maniera precisa l’aspetto che una Repubblica islamica rinnovata avrebbe assunto. Quali differenze avrebbe avuto una democrazia islamica rispetto a una democrazia laica occidentale? La società civile iraniana avrebbe assunto lo stesso significato che in occidente? Cosa si intendeva precisamente riformare e quanto questo cambiamento avrebbe modificato lo status quo se il progetto di riforma completamente si fosse concretizzato? L’aver disatteso queste domande salienti ha alimentato l’opposizione dei conservatori che hanno finito per soffocare il movimento. Khatami e i suoi sostenitori dovevano spiegare in che modo i loro slogan e le loro teorie avrebbero avuto attuazione. Ciò non toglie che la fragilità del movimento di riforma fosse largamente imputabile ai limiti costituzionali e istituzionali del presidente, al suo mandato popolare e ai suoi alleati, rispetto all’istituzione religiosa conservatrice (Tazmini 2009, p. 142). L’importante lezione che le società arabe post-rivoluzionarie possono trarre è che è necessario ottenere un consenso politico generale su un grande ventaglio di questioni, ideologie e orientamenti. Credo che Khatami avrebbe potuto adoperarsi molto di più per placare i timori dei segmenti tradizionali o conservatori della società che temevano la possibilità di una “intossicazione occidentale” e l’infiltrazione di influenze occidentali. Khatami ha sollecitato un dialogo tra le civiltà ma quel dialogo doveva iniziare all’interno dell’Iran. La stessa raccomandazione può essere rivolta alle società arabe post-rivoluzionarie che dovranno fare i conti con elementi indubbiamente più tradizionali e conservatori per non parlare di gruppi più radicali come quello dei salafiti.

Conclusioni

È ora il momento di mettere insieme i vari elementi di questa analisi per giungere a una importante conclusione che permeerà il dibattito europeo sulle transizioni democratiche nel mondo arabo post-rivoluzionario sempre più islamista. Abbiamo cercato di illustrare come alla luce della rinascita islamica nelle società arabe post-rivoluzionarie, ci sia un bisogno urgente di un dibattito interno alla società. Siamo giunti a questo punto attingendo alla presidenza di stampo riformatrice di Khatami, un’era in cui l’Iran doveva rispondere alle richieste di apertura politica e di libertà sociali. Era un periodo in cui il paese affrontava la sfida di introdurre prassi di “ispirazione occidentale” nel quadro nazionale, religioso e storico dell’Iran. Tuttavia, sebbene Khatami portasse la bandiera del “Dialogo delle civiltà” egli ignorò l’importanza di un dialogo interno alla civiltà. Il mondo arabo non può commettere questo errore. Con il sostegno dell’Unione Europea e del mondo, occorre attuare un dialogo interno dalla base molto ampia per stabilire quale ruolo assumerà l’Islam politico nelle società che hanno chiaramente dimostrato un entusiasmo verso le prassi e le istituzioni democratiche. L’UE può sostenere le transizioni arabe usando un approccio su due fronti: a livello locale e della società, l’UE può incoraggiare un dialogo tra le civiltà e tra le componenti sociali concernente l’adattamento dell’Islam, la modernità e le norme e istituzioni democratiche, associato ad un rigoroso approccio ermeneutico di riconsiderazione e reinterpretazione dei testi religiosi e classici in maniera più estensiva e creativa. A livello globale, l’UE deve favorire il riconoscimento universale dell’eterogeneità delle esperienze di modernità. Ciò significa che l’UE e gli Stati Uniti devono superare le proprie tendenze etnocentriche e contenere il loro impulso a controllare o dominare lo sviluppo incoraggiando gli Stati arabi a perseguire una strategia di “adattamento autonomo” alla nuova realtà politica e sociale al loro orizzonte.

(Traduzione dall’inglese di Daniela Rocchi)

 

Riferimenti

Adib-Moghaddam, Arshin. 2011. Iran, the Arab intifada and the end of the ‘Middle East’ [Online].
Available at: http://www.bitterlemons-international.org/previous.php?opt=1&id=355#1447
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