C’è un aspetto, spesso trascurato, che dimostra quanto limitata sia la libertà di stampa nel Paese dei Lupi grigi e del premier Erdogan. Si tratta delle numerose telefonate che partono dagli uffici dei ministri per giungere direttamente alle case editrici, alle redazioni dei giornali e ai network televisivi, così da esprimere dissenso riguardo ai temi trattati e costringere i direttori a un’autocensura evidente.
Se il cronista resta sulle proprie posizioni viene inevitabilmente licenziato o, peggio, arrestato e condannato a pene anche molto severe. Ne è l’esempio Huseyn Aykol, che nei primi anni Novanta è stato vittima, con i colleghi del giornale presso il quale lavorava, di una feroce repressione per aver scritto della questione kurda. Risultato: 10 anni di carcere. Meglio è andata, proprio in questi giorni, al pianista Fazil Say, che per alcuni tweet giudicati blasfemi, contro l’Islam, è stato condannato a 10 mesi.
E’ inaccettabile che un Paese candidato ad entrare nell’Unione Europa si ostini ancora a trattare i propri giornalisti come dei sovversivi e dei criminali. Proprio Erdogan, che secondo i suoi sostenitori ha lavorato più di ogni altro per portare la democrazia in Turchia, nulla ha fatto per garantire la libertà di espressione e di stampa. Spesso, anzi, ha intrapreso denunce sistematiche per diffamazione contro cronisti e scrittori, invitandoli ad abbassare i toni critici.
Silvia Dal Maso