La linea gotica

Creato il 22 agosto 2011 da Ilcasos @ilcasos

Ottiero Ottieri, “La linea gotica. Taccuino 1948-1958“, Milano, Bompiani 1963.

La copertina del libro edito da Bompiani

La Linea Gotica da cui il libro prende il titolo è quella simbolicamente varcata da Ottieri nel ’48 al momento della sua volontaria partenza per Milano da Roma, dove svolgeva, già da prima di laurearsi l’attività di letterato e di collaboratore a varie riviste. Lo scopo del 24enne intellettuale socialista è recarsi nel Nord industriale a conoscere e, nell’intenzione, documentare le condizioni di vita, di lavoro e di consapevolezza politica di una classe operaia che aveva già alle spalle una tradizione industriale consolidata e in molte grandi fabbriche era strettamente legata alla sinistra politica e sindacale.
Il taccuino non ha forma organica, bensì raccoglie annotazioni di vario tipo; letterarie, di costume, sociologiche, poi -con il procedere degli anni- sempre più politiche e intorno all’organizzazione industriale: non nasce perciò per la pubblicazione, idea che gli sarà proposta solo in seguito dall’editore Bompiani, del quale nel frattempo Ottieri ha sposato la figlia. Per questo motivo la dinamica della scrittura è decisamente ‘personale’; vengono riportati piuttosto i pensieri ritenuti degni di nota invece che la vita extralavorativa. Si descrivono per la maggior parte le considerazioni dell’autore su questo o quell’aspetto dell’organizzazione di fabbrica, la malattia che lo colpì, la militanza nel PSI, molto meno spesso i fatti come il matrimonio o la nascita di una figlia (una sola citazione a testa): a questo si aggiunga ad esempio che, per reticenza, il nome di Ivrea non è mai nominato.

Gli avvenimenti della vita di Ottieri in questo periodo devono quindi essere tenuti presenti a partire dalla sua biografia; arrivato a Milano trova posto nell’ufficio stampa della Mondadori. Inizia poi a dirigere la rivista “Scienza Illustrata”, avvinandosi così alle tematiche relative alle condizioni di alienazione materiale e spirituale nei luoghi di lavoro: nel ’53 viene assunto per esplicita volontà di Adriano Olivetti nella fabbrica di quest’ultimo in qualità di selezionatore del personale, prima a Milano e poi ad Ivrea. Dovrà però assentarsi per lunghi mesi a causa di una meningite fulminante: quando si sarà ripreso si trasferirà a lavorare presso lo stabilimento di Pozzuoli, luogo da cui scriverà i successivi romanzi.

È il caso di partire, per l’analisi, dalla scelta che Ottieri fa all’inizio del libro. Essa non solo è capitale, ma viene anche continuamente risimbolizzata man mano che gli anni procedono. Dunque, la partenza da Roma è prima di tutto un’emancipazione dalla tradizione familiare e dalla letteratura classica in favore della decisione, conseguente col suo sentirsi ‘intellettuale di sinistra’, di lavorare là dove il movimento operaio è più forte. Ma essa scelta sembra venire a simboleggiare, col tempo, anche l’uscita dell’autore, e della sua generazione con lui, dai due grandi miti del passato: da un lato il Fascismo, la (peraltro blanda) adesione al quale Ottieri leggerà sempre meno come avventura di gioventù e sempre più come metafora dello stato di miseria spirituale in cui la gioventù italiana versò negli anni del Ventennio con il suo conseguente desiderio di un ribellismo ‘facile’; dall’altro l’idealismo crociano, con la sua chiusura alle istanze più progressive provenienti dalla società e il sospetto nei confronti della cultura scientifica, ormai divenuto ideologia ufficiale della medio-alta borghesia che espresse quel po’ di intellettualità diffusa che costituiva, tra l’altro, il mondo delle riviste letterarie che Ottiero si volle mettere dietro le spalle. Inoltre, Roma non ha ‘la fabbrica’, è semmai il luogo per eccellenza della Pubblica Amministrazione. Più complesso è invece il rapporto dell’autore con la campagna tosco-umbra della quale la sua famiglia è originaria. Essa è sì il luogo degli affetti, ma non per questo la vede racchiusa in un tempo immobile: la concezione del tempo contadina è sì ancora sensibilmente diversa, soprattutto quella delle persone più anziane (esiste infatti un vistoso fenomeno di emigrazione giovanile), ma l’industrializzazione inizia a modificare i rapporti di produzione anche nelle campagne. Emblematiche dell’arrivo di una modernizzazione che non scioglierà le contraddizioni del nesso città-campagna sono in questo senso le descrizioni della costruzione della ferrovia.

Questo per quanto riguarda le premesse. La domanda successiva è se si possa parlare di ‘scrittura industriale’ per questo libro che, a conti fatti, è ambientato dall’altra parte di quella che Ottieri continua a sentire a tutti gli effetti come una barricata. Il problema principe dello scrittore è per l’appunto quello di non riuscire ad aderire appieno alla sua materia, cioè quel mondo del lavoro di fabbrica, il luogo dove si produce e si approfondisce la contraddizione capitale-lavoro. Ottieri non si sentirà mai, e con buona ragione, intellettuale organico; è egli stesso a coniare per sé la definizione di senso del margine. Riesce a frequentare poco la sezione del PSI e meno ancora ad impegnarsi nella politica attiva: lavorando come selezionatore del personale, inoltre, vede e conosce personalmente la classe lavoratrice, ma spesso nella sua componente più fragile e disadattata alle condizioni del lavoro industriale. Muovendosi quindi tra analisi sociale (di impronta non prettamente marxistica, però) e psicotecnica, egli sente di percorrere una strada stretta: il suo timore però è che si riveli essere un vicolo cieco. Se almeno da parte dei lavoratori l’alienazione cresce, a meno di non trovare un proprio equilibrio mentale separando completamente il tempo del lavoro da quello della vita, allora una via media tra capitale e lavoro non esiste: se chi scrive non riesce a scendere completamente nella realtà del lavoro, allora in ultima analisi ci si schiera dalla parte del padronato, per quanto bene si possa fare il proprio mestiere e si possano migliorare le condizioni materiali di lavoro (Ottieri è infatti molto critico con le posizioni alla “tanto peggio, tanto meglio” che ritiene talora di veder prevalere nella FIOM).

Lo si potrebbe definire altrettanto bene il libro di un malato, che narra di una malattia del cervello che inabilita e rende inetti, non senza dichiarate analogie con la condizione intellettuale che Ottieri vive. Non che per questo si cada nell’irrazionalismo (à la Thomas Mann del Zauberberg, per intenderci): la malattia è semmai una parte di un viaggio verso l’interno, con un tempo necessariamente sfasato rispetto a quello lineare della Olivetti, ma che non rinuncia alla lucidità dell’osservazione dei caratteri -dei medici, infermieri e altri pazienti, sempre compresi nella loro dinamicità sociale.

La linea gotica è anche un libro di spazi diversi: quelli della campagna, ma soprattutto quelli delle città; Milano, Sesto San Giovanni, Ivrea, Pozzuoli. Città diverse che rispondono a logiche diverse. Non si può capire cosa sia l’industrializzazione in Italia senza fare, per esempio, una passeggiata per Sesto S. Giovanni una domenica mattina, sembra dire Ottieri: qui il centro storico, medievale, con l’acciottolato, è affiancato senza soluzione di continuità dalla zona industriale, costituita di larghi vialoni ad uso e consumo dei camion con tutti i capannoni uno in fila all’altro, tra cui spicca quello della Falk con le sue ciminiere. Eppure, questa assume una vita diversa nel fine settimana proprio perché non accoglie normalmente lavoratori del luogo, diversamente da Ivrea -che Olivetti volle progettata secondo criteri di abitabilità all’avanguardia (i famosi princìpi di Comunità)- che a Ottieri sembra poco più che un esperimento urbanistico in provetta, e poco riuscito proprio perché non sentito da chi dovrebbe darvi vita. Napoli invece , e quel che riporta delle sue impressioni sul Sud, gli appare come un mondo non tanto intoccato dall’industrializzazione, quanto una realtà dove la grande fabbrica ha appena iniziato ad ibridare di sé un tessuto sociale ancora arretrato, dove il miraggio del posto fisso causa una sorta di psicosi collettiva; chi riesce ad essere assunto diviene, per ciò stesso, quasi un miracolato: Napoli e il Mezzogiorno non sono quindi fuori dal circuito del capitalismo italiano, ne sono il necessario specchio con la emigrazione che producono e la manodopera differenziata che vi è disponibile.

Dovendo sintetizzare, “La linea gotica” si può davvero definire un libro sul lavoro, meglio: un libro sulla crisi (irreversibile? Il pessimista Ottieri sembra pensarla così) del lavoro sia fisico che intellettuale come vocazione, e dell’inadeguatezza dei mezzi scientifico-sociali a rappresentarla. Per questo vi ritroviamo nel suo farsi la costituzione di una poetica che sia lucida, ma mai cinica: consapevole che non esiste un ‘livello zero’ della letteratura di fabbrica. Anche nella mera descrizione di quel che vede alla catena di montaggio, Ottieri non trascura mai il particolare, l’individuo, quell’aspetto che può fare intuire un mondo sociale dietro dati all’apparenza insignificanti. La ripetitività del lavoro, le condizioni in cui si svolge (rumore, calore, etc) sono riportate nella loro nudità e mai ‘naturalizzate’, quasi a voler lasciar intuire una condanna: al contrario, nel libro quel che turba l’autore è la sempre maggiore separazione, almeno nella testa degli operai, tra tempo di lavoro e tempo di vita. La proprietà si trova dunque nel ruolo paradossale di voler sì migliorare le condizioni di lavoro, ma nella direzione di una maggiore produttività e contenimento dei tempi e dei costi (magari con dei faraonici piani di riorganizzazione progettati da una classe manageriale su cui Ottieri ironizza ampiamente): il sindacato sta nel mezzo cercando di spostare in avanti la linea delle rivendicazioni salariali e di rappresentare le posizioni maggioritarie tra i lavoratori, magari con qualche equilibrismo di linea politica nella Commissione Interna.

Ottieri rappresenta al contempo la sua crisi di intellettuale socialista sì, ma lontano da posizioni ‘ufficiali’ di partito. Eppure in quella contraddizione insanabile egli sta, unico luogo dal quale possa rappresentare con disincanto insieme il sogno di un Adriano Olivetti e le miserie della vita quotidiana degli operai; la dignità di chi lotta per difendere un posto di lavoro e la vastità dei processi di riorganizzazione industriale in corso in Italia negli anni ’50. Sarà quindi la forma più propriamente letteraria a contenere meglio questo genere di considerazioni, che nel libro troviamo nella forma di incisi o di dialoghi di personaggi necessariamente “costruiti”, ma slegati dall’obbligo di dover essere del tutto rappresentativi di un mondo.


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