Lo aveva fatto per la prima volta in Bagheria (1993), attraverso una visita guidata della villa in Sicilia dove passò l’adolescenza, di ritorno dal Giappone e da una permanenza di tre anni in un campo di concentramento nipponico, dove fu rinchiusa con il resto della famiglia quando i genitori rifiutarono di riconoscere la Repubblica di Salò. Il periodo giapponese è approfondito ne La nave per Kobe (2001), in cui la Maraini utilizza i diari della madre siciliana, la bella principessa e pittrice Topazia Alliata di Salaparuta, per viaggiare nel tempo e nei meandri del rapporto madre-figlia.
Una relazione indelebilmente segnata dalla presenza ingombrante dell’adorata ed eclettica figura paterna. Carismatico orientalista e padre affettuoso, ma poco incline alle esternazioni, Fosco Maraini visse da spirito libero ogni dimensione dell’esistenza, anche quella di coppia. Sotto cieli stellati e all’ombra di ciliegi giapponesi iniziò la primogenita Dacia all’analisi critica del cosmo e delle sue leggi razionali ma anche alla contemplazione dell’essere umano nelle sue espressioni linguistiche e culturali. È una sorta di “autopresentazione” anche quella del padre, poliglotta antropologo fiorentino e appassionato alpinista, morto nel 2003. Ne Il gioco dell’universo (2007), ai suoi ricordi di figlia, la Maraini intercala appunti e riflessioni tratti dai taccuini di viaggio del padre: le esplorazioni del Tibet, il Giappone, le tenaci ponderazioni etimologiche e filosofiche. C’è un elemento autobiografico anche nel suo romanzo più noto, La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990), in quanto Marianna risulta essere un’antenata da parte materna, il cui ritratto era appeso nella casa di Bagheria.
Apre l’ultima trilogia “ideale” la raccolta di racconti La ragazza di via Maqueda (2009) in cui, a ogni racconto, corrisponde una tappa della sua vita: la Sicilia dall’indolente intensità, Roma come fervente base per lunghi viaggi intercontinentali e l’Abruzzo incantato dalle grandi foreste. Tanti riferimenti all’amico Pier Paolo Pasolini, compagno di safari africani e soggiorni orientali. Con loro hanno viaggiato anche Alberto Moravia, a cui la Maraini fu legata dal 1962 al 1978, Eugenio Montale e Maria Callas, che sospirava nelle notti africane a causa dell’amore impossibile provato per Pasolini. Popolato di racconti di viaggio anche La seduzione dell’altrove (2010): non solo l’Oriente e l’Africa, ma anche il Sudamerica, l’Europa dell’Est e i verdi campus americani. A far da contorno alle descrizioni dei luoghi c’è qualche abbozzo di analisi sociale e alcune chicche dei suoi compagni di viaggio, come le piccole manie di toeletta di Moravia. Quando lo scrittore romano era ancora in vita, la Maraini gli “strappò” alcune memorie —nonostante la sua resistenza a parlare del passato e lo sguardo volto al futuro che lo contraddistingueva —e le pubblicò ne Il bambino Alberto (1986).
L’ultimo libro, La grande festa (2011), è un lungo saluto ai suoi morti, in ordine sparso. La festa è quella riservata, in altri tempi e altre culture, al defunto che passava a nuova vita, quando si porgeva un tributo al suo passaggio terreno e lo si accompagnava coralmente verso l’unico posto dove la festa non finisce mai.
La prosa slegata è il dazio che la scrittrice paga alle sua raccolta di memorie. Dalle atroci malattie della sorella Yuki e del compagno Giuseppe, che si sono consumati lentamente sotto i suoi occhi, alla scomparsa serena di Moravia, colto da ictus dopo un doccia mattutina; lui che, per Dacia, al pari di sua madre, «rappresentava l’eternità». Brucia ancora l’omicidio, tuttora irrisolto, dell’amico Pasolini, che si aggiunge alla ferita viscerale del figlio mai nato. A questa sequenza di tristi ricordi (io non ve la consiglio come lettura sotto l’ombrellone) la Maraini applica il filtro paterno dell’antropologa e si interroga sull’esperienza della morte in culture diverse. Si sofferma soprattutto sulla paura che i vivi sembrano avere dei morti nella società occidentale, sul “nostro” bisogno di nascondere il trapasso e la sofferenza degli ospedali, sull’esigenza di tenere lontano dagli occhi i corpi senza vita.
«Perché inchiodiamo con tanta determinazione le casse da morto?», si chiede. Tutte quelle viti e quei chiodi sui coperchi delle bare come se si temesse una loro uscita. «Gli orientali hanno un rapporto molto più gentile e affettuoso coi morti». Nel tentativo di immaginare un posto, un dopo per tutti coloro che non ci sono più, si imbatte nella difficoltà di concepire l’assenza di un altrove: «l’idea del nulla è sgraditissima a molti e quasi inaccettabile per la mente umana». E così si viaggia ancora. Dall’Ade di Omero all’iperuranio di Platone. Dall’isola sfumata del teatro Nōgiapponese, al Palazzo dell’Immortalità della mitologia cinese e ai morti africani che abitano dietro le cortecce dei baobab. Impossibile anche per la Maraini mettere un punto a queste domande senza risposta. Sul finire affida le sue speranze terrene alla figura dell’araba fenice, l’uccello eterno che risorge dalle sue stesse ceneri. E strappa ancora un libro godibile ma non indimenticabile, laconico e confuso, come lo sono stati i due precedenti.
Onde evitare di farle un torto immeritato, però, voglio ricordare anche l’altra faccia della produzione letteraria di Dacia Maraini che è anche saggista, poetessa e drammaturga. Tra un ricordo e l'altro, infatti, la Maraini non ha mai cessato di portare l’attenzione a temi sociali e politici, in particolare alla condizione delle donne. E poi il '68 de Il treno per Helsinki (1983), il ritratto carcerario dell'Italia degli anni Settanta inMemorie di una ladra (1973), la violenza sulle donne in Voci (1994), la maternità di Un clandestino a bordo (1986). All’attivo anche due romanzi storici, Isolina (1985) e Il treno dell’ultima notte (2008), e un saggio su Madame Bovary, Cercando Emma (1993). A queste si aggiungono le tante opere eclettiche che, negli anni, ha scritto per il teatro, sua passione intramontabile.
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