“Spiaggia libera tutti” di Chiara Valerio (Laterza) è un docufilm cartaceo su Scauri, il posto dove l’autrice è nata e cresciuta: galoppata nel far-(spaghetti)-west a cui questa giovane e ipertalentuosa scrittrice dedica un canto d’amore affettuoso, letterario, letteraturoso e molto comico, ma col patetico a fil di groppo.
Scauri come Macondo, il paese sudamericano dove è ambientato “Cent’anni di solitudine” di G. G. Marquez; Scauri raccontata con una prosa a metà tra Roberto Bolaño e Jerome K. Jerome – l’autore di “Tre uomini in barca”. E come nel capolavoro di Marquez questo libro porta nello sguardo complessivo il significato di un passaggio di consegne generazionale tra padri e figli, un lascito di continuità storica, morale, emotiva e sociale tra figli e genitori, nonni, bisnonni, e quelle persone che – pur non essendo parenti – appartengono dell’anima di un luogo al punto da esprimerne contenuti condivisi tra tutti, come antichi aedi.
Chiara Valerio ci ospita nella sua vita, ci illustra ogni strada mostrandoci tutte le immaginarie lapidi del suo percorso, ci racconta gli aneddoti storici legati ai non pochi personaggi famosi che hanno lasciato una traccia lieve o grave del loro passaggio sulle sue terre. Fra tutte spicca Fabrizia Ramondino, morta su una spiaggia poco distante, che ricorre a più riprese nel racconto come un fantasma evocato dalla nostalgia dell’autrice; ma la narrazione si nutre costantemente di scrittori, citazioni, richiami espliciti o impliciti, perché il mondo di Chiara bambina e ragazza si è cibato, di più, ha radicato se stesso nella alter-vita dell’universo letterario. E ogni suo rapporto di lettura avida, notturna, sensuale, ripetuta, mandata quasi a memoria, è un rapporto magnificamente biunivoco dove Margherite Yourcenar e Virginia Wolf non sono nomi su copertine ma dramatis personae che entrano nella storia di “Spiaggia libera tutti” dialogando con l’autrice, dandole del tu. Il mondo letterario per Chiara Valerio è vero e presente nella sua storia e nella sua vita quanto la sua realtà corporea, fisica, e si fa modo di comunicazione, condivisione con il suo lettore, gioia di evocazione. Come in Bolaño, vediamo in controluce milioni di pagine di libri profumate di cellulosa e inchiostro e sentiamo quanto sangue contengano, la spinta che le hanno dato.
È un continuo alternarsi tra esistenza letta e vissuta, felicemente, trasgressivamente: giovinezza avventata e libera, “protetta” dalla cittadina, con libidine di vita e sfrontatezza, pericolo. La zona di Scauri sembra un pullulare di bar, un luogo dove tutto avviene all’aperto, a prescindere dalla stagione. Il mare come madre-matrigna, compagna di giochi troppo grande, a volte indifferente, che non sa perdonare l’avventatezza, ma alla fine sì: ti restituisce vivo in extremis e pronto a giocare ancora.
Ma non è un trionfo di ottimismi: tocchiamo spesso anche morti inaccettabili, futili, cannibali: i fatti di cronaca nera legati ad alcuni giovani del paese che hanno solcato la vita dell’autrice nel profondo. Così come pulsa il dolore rabbioso della denuncia sulla scuola italiana, su droga e camorra, sull’inciviltà: «A Scauri, come in molto Sud, lo Stato non è di tutti, è di nessuno». E ovviamente inciampiamo anche nelle “opere pubbliche” inutili e in quelle che sarebbero invece utilissime, ma non ci sono. Un libro così esemplare sull’Italia, ma soprattutto un tributo d’amore, alla fine, perché anche sulle cose più negative resta la capacità di scrollare le spalle, pronunciare un partenopeo «jà» e vedere se poi non possano davvero andare comunque a posto, in qualche modo.
E per raccontare tutto questo Chiara Valerio ha messo il meglio dalla sua potentissima, cesellata prosa, i suoi aggettivi neurochirurgici, l’andamento karavaniamo della prosa, il sense of humor un po’ britannico alla Jerome («Io non odio Formia, solo che non ne percepisco il fascino») che in questo libro più che in qualsiasi altro suo lavoro è emerso con grande naturalezza.
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