Magazine Cinema

“La madre” di Angelo Maresca: le ansie di un legame morboso tra madre e figlio

Creato il 22 luglio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

La madre - Angelo Maresca

Scelta fin troppo coraggiosa quella di portare sullo schermo i personaggi di Grazia Deledda, dal 1927 ad un’attualità non ben definita, dai luoghi arsi della Sardegna alla location romana dell’Eur. Si sentono, nella narrazione della Deledda, il rumore eterno del vento, dello spaccapietre sul ciglione del paese che lei chiama “paesetto”, il vociare del fiume, le grida dei ragazzini sulla piazza e i profumi di timo, di tutta la macchia mediterranea, “l’odore dei cespugli bagnati di luna”.

Il regista Angelo Maresca invece ha scelto luoghi freddi, contrasti di bianco e nero nettissimi per raccontare una storia senza tempo: quella dell’amore materno ossessivo, possessivo, di un’esclusività patologica, interpretato magistralmente dalla bravissima Carmen Maura. Ha scelto i silenzi, interrotti da dialoghi interni densissimi, le stesse citazioni del romanzo. E identico al romanzo è l’esordio del film: la madre che pedina il figlio, Don Paolo (Stefano Dionisi), mentre sta andando clandestinamente dall’amante. Non importa se è passato un secolo dall’altro inseguimento. E’ notte e il prete è uscito di soppiatto per sfuggire al controllo della madre, la quale, quella di ora come quella di allora, ritiene giusto vedere con i suoi occhi,  cercare la conferma dei sospetti, come farebbe un’amante tradita, con lo stesso identico diritto. L’inquadratura sul volto di Carmen Maura è insistita, l’espressione degli occhi e del viso sempre più determinate, in una sequenza molto lunga senza rumori, né musica, solo il tacchettio dei suoi passi, le sue gambe ancora giovani e il corpo appesantito. Finché non arriva davanti alla casa in cui si consumerà la passione dei due. Appartamento modernissimo, una vetrata che lascia vedere la sfrontatezza del loro bacio.

la madre 3

E’ un prete di oggi quello che ci viene descritto, tanto che Maresca non esita a farcene vedere il corpo, anzi ce lo mostra generosamente, mentre si lava e si profuma prima dell’appuntamento, e non ci risparmia gli amplessi, anticipati dalla sfacciataggine di quel bacio. E’ una passione narrata tutta en plein air. I due consumano un frettoloso rapporto persino in chiesa, luogo del presente che a fatica si riconosce come sacro. Spazio ampio, biancore abbagliante delle panche e degli arredi hanno un effetto straniante, e gli ardori (della carne e dello spirito) perdono credibilità. Lo spettatore subisce un certo disagio, mentre cerca di conciliare i conflitti di Don Paolo e la profondità dei suoi pensieri con il gelo che li contengono.

Al contrario, la canonica è avara di luce, le porte si aprono lentamente, sempre con timore, non si capisce mai se è giorno o se è notte. Enormi quadri alle pareti con scene angoscianti a rappresentare il senso del peccato, statue ricoperte da teli, vetri offuscati che, anziché far trasparire, nascondono. E’ il luogo della convivenza con la madre, nel quale forse finora Paolo si è sentito al sicuro, se pure in una cupezza paralizzante.

Come spesso succede nella vita, la donna scelta è del tutto opposta alla  madre e al suo mondo. La mamma è spagnola (Angelo Maresca ha chiesto a Carmen Maura di non essere doppiata), di origini umili; l’amante (Laura Baldi) è bionda, alta, sofisticata, altera, quasi glaciale, ricca, vestita di bianco e nero come l’ambiente intorno. La sua minaccia finale di rivelare tutto in chiesa davanti ai parrocchiani, quando si sente ingiustamente abbandonata, è in linea con il personaggio, sembra dettata dalla sua incapacità di perdere. E’ una donna sola, di una solitudine che non intenerisce; mentre l’Agnese del romanzo (minuta e bruna) che non compare mai prima della fine, sembrerebbe minacciare la stessa cosa,  più per disperazione e perdita della sua integrità, che per vendetta.

la madre 4

Forse l’errore è stato quello di leggere Grazia Deledda prima di vedere il film, di cui, bisogna convincersi, è solo una libera interpretazione. Di simile, però, resta la caparbietà della madre che ha voluto il sacerdozio del figlio, per confermare la mortificazione della sua vita, e la difesa della sua scelta fino in fondo. Nei cento anni che sono passati dalla donna di Grazia Deledda e quella di Angelo Maresca non è cambiato niente, tanto le proiezioni materne risultano sempre una prigione, nella quale i figli si dibattono senza via d’uscita e dalla quale neanche i genitori, spesso inconsapevoli,  riescono ad uscire.

Infastidisce però una scena ripetuta, quella della madre da giovane sulla spiaggia, che è anche l’incipit di tutta la storia, prima del pedinamento notturno. Ogni tanto la narrazione è interrotta dalla ragazza sdraiata sul bagnasciuga, e rannicchiata su se stessa dopo aver subito violenza, quasi a voler rendere a forza il perché delle sue scelte successive. Non ci piacciono le spiegazioni causa-effetto così sbrigative. E ci piace di più intuire l’origine della vita dei personaggi, che non le cause, perché il determinismo in psicologia e nella vita è sempre riduttivo e pericoloso.

Ciò che conta è che la penitenza a cui la madre ha sottoposto se stessa e il figlio, amato come prolungamento di sé, è oramai una condizione non più discutibile. La madre di Grazia Deledda piange, prega e si dispera, fino a morirne. Siamo grati ad Angelo Maresca per il finale aperto, di una situazione che sembrerebbe senza via d’uscita, se non drammatica, quasi a volerci dire che i dissidi dell’anima di oggi, anche se stridenti, sono forse più risolvibili di allora. Il diavolo fa meno paura e qui, come nel romanzo, è rappresentato dall’ex sacerdote della parrocchia, un prete vizioso, e laido,  diventato fantasma (Luigi Maria Burruano) con cui la madre dialoga nel suo sperdimento.

la madre 5

Altra aggiunta che ci è piaciuta poco è la scena del bagno, in cui la madre, in un flashback gratuito, lava il figlio ormai adolescente, mentre gli chiede se è contento della sua vita in seminario e lui non può che rispondere di sì. Un elemento edipico, e quasi incestuoso, di cui avremmo fatto volentieri a meno, perché non si possono spiegare, in maniera così frettolosa, la forza del legame, le rinunce, l’investimento affettivo, il dramma esistenziale di due vite che si sono aggrovigliate insieme fino a questo punto. Tanto da non capire, per tutta la durata del film, se Paolo soffre di più per la disubbidienza a Dio o per il sacrilegio di dover disubbidire alla Madre.

Margherita Fratantonio


Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :