Il porto. La strada piena di auto parcheggiate male, ammassate a ridosso l’una dell’altra, i finestrini mezzi abbassati e alcune radio accese. Fa caldo, il riverbero del sole gioca con l’asfalto, un vociare lontano attira la mia attenzione. Raggiungo il gruppo di gente davanti a me, qualcuno urla, qualcun altro parla al cellulare mentre dimena un foglio di giornale verso un sacerdote, una donna si aggiusta il foulard sotto la giacca e si avvicina a me. Mi fa segno di andar via.
- Perché? – le chiedo.
- Finisce male, vada via, signorina.
Mentre mi parla mette la borsa sul sedile della sua auto, fa inversione e si allontana, decisa.
Cerco un punto dove la calca sia più rada. La confusione è tanta, uomini parlano lingue diverse, si spiegano a gesti, si spintonano, si insultano, ma restano sempre uniti, sembrano non aver paura di ciò che sta accadendo.
Io sì.
Barconi di immigrati si avvicendano sul molo, sbattuti tra le onde e gli scafi in arrivo, uomini e donne senza destino: quello che avevano l’han lasciato alle correnti, tra i flutti delle loro mille domande. Volti scavati, mani incerte cercano un appiglio per non cadere in acqua, voci stizzite, imploranti vita, labbra assetate e bambini assonnati. Flash strapagati si contendono la prima pagina, microfoni pronti ad andare in stampa chiedono la prima fila.
Due donne fanno la spola da un bar lì vicino. Un via vai di latte, brioches, termos di bevande calde da distribuire, di bottiglie d’acqua, di biscotti e succhi di frutta.
L’inverno è andato via da poco, per fortuna non piove e un po’ di sole rende più ‘accogliente’ la vita, così terribile, oggi, di estraneità e durezza.
Accovacciata dietro un muretto, appena visibile da un lembo di scialle che le cade sulle gambe: una donna. Poco più di trent’anni, capelli neri raccolti dietro la nuca, occhi scuri, grandi, infiniti di terrore, mi guarda. Sembrava cercarmi, a dire il vero, ho quasi ‘avvertito’ il suo sguardo attirare la mia attenzione. Le sorrido. Risponde con un cenno, lieve, del capo. Mi guardo intorno, tentando di chiedere aiuto a qualcuno che si prenda cura di lei. Con un battito negli occhi mi dice di no, mi implora di non chiamare nessuno.
Mi avvicino. Mi accovaccio anch’io, con lei. Sorride. Accenna un italiano stentato ma riesco a capirla.
Il suo nome è Saryda.
Mi accarezza le mani, mi chiede dell’acqua e dei fazzoletti di carta. L’accontento. Infagottato e nascosto in strati di stoffa, accolto nel suo braccio destro: un neonato.
Cinque mesi, è un maschietto, mi dice, si chiama Joel.
Il viaggio della disperazione ma nessuna certezza: si parla di rimpatrio, di un altro viaggio, forse senza sponde, senza terra. E una madre che piange in silenzio, fuggita per salvare suo figlio, per dargli la vita di nuovo, di nuovo la luce. Ha palpebre gonfie dal sonno, dalla febbre, dal freddo della notte.
Cosa faccio io qui? Cosa posso fare per lei, le chiedo. Si stringe nelle spalle, mi accarezza una guancia, abbassa gli occhi e culla suo figlio.
E’ meravigliosa.
Il suo corpo diviene casa e letto, coperta e fuoco, lenzuola fresche di sole e acqua profumata di bolle di sapone, diviene il sogno che non può dargli, la canzone che non può cantargli, il bacio di panna e nuvole che voleva per lui.
Ma, ora, è abbraccio di stanchezza, mentre il giorno cala già oltre il tramonto.
Con la mano scopro un po’ il faccino del bimbo, una coperta di lana lo avvolge e lo protegge da occhi curiosi: sembra dormire e sorride, forse sogna. I capelli neri e ricci si arrendono alle mie dita che li aggrovigliano in carezze lente, poi lungo le tempie, le guance, fino a sfiorargli le labbra.
E’accaldato, è felice. Lui non sa, non comprende, non vede il grigio nel sole, non sente il freddo nei pensieri di sua madre, nelle fessure della forza della sua maternità. Col ciuccio in bocca, è lì, cha aspetta di crescere, di varcare il mare, quello del suo domani, delle sue scelte, dei suoi passi incerti per diventare un uomo.
Non si sa dove sia suo padre: son stati divisi qualche giorno fa, e, da allora, niente più notizie.
Saryda è inquieta, si agita all’arrivo delle forze dell’ordine. Polizia e carabinieri si alternano sul molo, si cerca di decidere, occorre trovare a questa gente, una sistemazione, almeno per ora.
Guardo la distesa d’acqua di fronte a me: la mia terra, immensa, come la storia che l’ha vista cambiare.
Un luogo di conquista, di dominatori e di invasori. Una terra che ha accolto e che ha cacciato via, e che, tuttora, conserva i segni di chi è stato qui prima di me. Dallo stesso mare, Saryda, Joel e quanti ancora!
Un poliziotto si avvicina, mi chiede chi è, perché non è con gli altri.
Lei si alza in piedi, appoggiandosi a me, tentenna, è stanca. Il bambino si sveglia, forse ha fame. L’uomo in divisa la osserva, in silenzio. E’ un uomo sulla cinquantina, occhiali e barba di due giorni. Il volto dolce. Gli spiego che era seduta in disparte perché il figlio dormiva, voleva stare tranquilla, lontana dal caos.
Saryda è agitatissima. Guarda me, poi guarda il poliziotto. Vorrebbe dire qualcosa ma non ci riesce.
Gli uomini della pattuglia, verso il molo, ci fanno cenno di avvicinarci. Prendo Saryda per mano: non si muove.
Con un gesto veloce mi mette in braccio suo figlio e scoppia a piangere. Io resto impietrita.
- Salvalo tu! – mi fa.
Chiedo aiuto al poliziotto. Le si avvicina, piano, le spiega che non le succederà nulla, che andranno in un centro di accoglienza dove avranno da mangiare e da dormire, e l’indomani si deciderà il da farsi. Cerca di calmarla. E’ sconvolta. Abbraccia l’uomo davanti a sé, singhiozzando.
Joel, tra le mie braccia, si è riaddormentato. Ha le manine fredde. Io sono raggelata da tanto strazio.
Momenti interminabili, in cui si vorrebbe avere la legge tra le mani, aggiustarla in due passaggi e restituire la vita a chi la implora.
Cosa fare?
L’agente prende il bimbo dalle mie braccia e glielo porge.
- Fidati di me – le dice
Lei si asciuga gli occhi col dorso della mano, ha l’aria rassegnata. Afferra per un braccio quell’uomo, divenuto per lei promessa e gli chiede, di nuovo, fiducia. Lui le fa cenno di sì, come farebbe un padre ad un figlio impaurito. Saryda si aggiusta lo scialle sulla testa, copre il viso di Joel e mi raggiunge, mi dice grazie.
La stringo forte, respiro la sua disperazione e il suo odore di fremiti al cuore, di tremori dell’anima.
Mi prende la mano.
- Torni, domani, a trovarci? -
- Sì – le prometto
Li guardo allontanarsi. Lei si gira, ancora una volta, mi fa cenno con la mano. Le rispondo, i miei occhi nei suoi.
Entro in macchina, metto in moto. Faccio inversione e riprendo l’uscita.
Si è alzato vento, ho un po’ di freddo. Magari domani piove.
Domani.
Spero tanto di trovarti ancora, qui, Saryda, madre dolcissima.