Vengo subito al punto. Come molti, io penso sinceramente che la scelta della scuola vada rispettata in nome della stessa libertà che riconosciamo alla mia collega di vivere la sua esistenza come vuole. La stessa identica libertà, pur ammettendo che le ripercussioni sulla vita altrui sono di portata e di carattere diversi. Libertà è innanzitutto responsabilità di essere e di fare, con tutto ciò che ne consegue. Se non partiamo da questo punto, secondo me non arriviamo da nessuna parte. Una scuola con un orientamento deve garantire che alle famiglie che la scelgono, e pagano per farlo, abbiano quello che ci si aspetta sia giusto e buono per gli alunni.
Ma qui, proprio a partire dal mio profondo rispetto per una dichiarazione ufficiale della Madre Superiora e per la libertà di ciascuno, sorgono tanti di quei problemi che non si possono risolvere con un dibattito pubblico spesso spurio, perché già preorientato in ogni circuito. La mia collega lavorava in quella scuola da cinque anni: possibile mai che in una città piccola come Trento non fossero arrivate voci in merito prima di allora? Cos'è successo davvero per cui quelle voci assumono un simile rilievo a un certo punto? E poi: davvero sarebbe bastato che l'insegnante smentisse quelle voci per vedersi rinnovare il contratto? Va da sé che i meriti della maestra, fedele alla scuola e stimatissima, non bastano più come collante.
Un tipo di colloquio così com'è stato presentato dai media riporta a una logica della forma e dell'apparenza. Stimo perciò ancor più la mia collega che non ha negato le voci sul suo conto scegliendo la via più rapida e opportunista, perché sulla propria salvaguardia alla propria vita interiore non si tratta, tanto meno con se stessi. Eccoci, dunque, ci siamo arrivati facilmente: sulla vita interiore non si tratta. Ma il tam-tam ha forse avuto il carattere di morboso voyeurismo? No. L'appello di tutti è stato a criteri costituzionali, a ragioni di ordine pubblico, ai finanziamenti alle scuole paritarie e così via. Un contratto di lavoro - affare privato quant'altri mai - è diventato una questione di interesse comune. Ma, ribadisco, almeno suor Eugenia Liberatore non si è voluta sottrarre allo scandalo radical chic che la sua azione ha comportato.
Per quanto riguarda il mondo cattolico impegnato nel sociale - tale è una scuola di quel tipo - il problema vero mi sembra la gestione spesso ipocrita o, peggio, intimamente irrisolta dei famigerati "principi non negoziabili". Ne ho già parlato, ma devo ripetermi: sul piano logico, la vita morale scaturisce "a cascata" dalla fede in Dio e nei suoi insegnamenti, dichiaro che nient'altro deve orientare il fine e lo svolgersi delle mie azioni. Allora se voglio difendere e promuovere una certa educazione, devo scegliere dipendenti la cui vita è legata a quella fede in Dio e ai suoi insegnamenti, perché quello conta prima di tutto: avendo tracciato un confine tra me e gli altri, devo tenere presente l'esistenza di questa demarcazione, altrimenti sono perlomeno scorretto. Poi ci possono essere momenti (anche forti e numerosi) di condivisione di convincimenti che sembrano vanificare tali demarcazioni e ci consentono di cooperare, ma i principi in base ai quali si agisce rimangono diversi. Sarebbe suicida che non ci fossero e che non si riuscisse a condividere buoni progetti, la società si sgretolerebbe all'istante.
D'altra parte, non c'è niente di più "culturale" e negoziabile (e negoziato a convenienza) dell'etichetta di "legge di natura": non mi sta affatto bene che chi non vive una vita religiosa (codificata secondo una sua storia e un determinato catechismo) sia tenuto sotto scacco da leggi morali che hanno una loro precisa scaturigine. Quello che invece succede spesso nel dibattito pubblico, in particolare con il cattolicesimo per la sua intrinseca vocazione universalistica, è che si sottolineano interessi e punti di vista trasversali diluendo in modo poco chiaro - e spesso grossolano e sleale - ciò che invece è all'origine del dialogo, ovvero le differenze di partenza sui principi. La condivisione di un lavoro e di obiettivi, più che auspicabile in ogni ambiente professionale e sociale, non fa perciò degli "universali" di questo lavoro e di questi obiettivi.
Qui siamo di fronte a un problema molto più grave di privatizzazione della scuola: non tanto l'accondiscendenza statale all'intervento privato e l'intervento economico a suo sostegno, quanto la pretesa di gestire la scuola come se tutto ciò che le pertiene fosse frutto di un ragionamento univoco e indiscutibile. Se è chiaro - e ormai dovrebbe esserlo - che non sono affatto contro l'iniziativa privata o cattolica nell'ambito dell'istruzione, d'altronde trovo insopportabile il cerchiobottismo di chi vuole l'insegnante bravissima sul piano professionale (in seguito a una selezione con criteri propri che esclude altri candidati) e la condivisione ab ovo di tutto un apparato che, peraltro, mi pare che la collega abbia sempre rispettato (e quando si rispetta davvero, si rispetta nella sostanza, non solo nella forma). Se poi addirittura questa struttura deve invadere spazi non previsti, quale l'universo affettivo e sessuale della maestra, allora il cortocircuito provoca i suoi danni. Il "percorso riabilitativo" proposto alla collega (ammettendo la buona fede dell'offerta) è stato un'invasione di campo che non aveva presupposti nella natura contrattuale del rapporto tra le parti.
Non mi stancherò mai di ripeterlo: nel moderno stato laico l'uomo nasce e va in giro come "cittadino", con la sua capacità giuridica.Io non ho nessuna competenza legale e non so come si possa risolvere nei tribunali la questione della maestra di Trento. Da un punto di vista di osservatore, ritengo che sia un ulteriore segno di chiassosa ipocrisia l'aver dato al fatto una simile eco.
Riferimenti
L'articolo su "La Stampa"
Un articolo su Sì24
Dire di sé: outing e tragedia
Sui Principi non negoziabili