La mafia non avanza col tritolo, ma a botte di mazzette

Creato il 23 marzo 2015 da Tafanus

Pochissimi omicidi, ora le cosche preferiscono usare le bustarelle. Comprando politici e funzionari, in modo da moltiplicare gli affari. E infiltrarsi ovunque. Un salto di qualità che soffoca l'economia
(di Lirio Abbate - l'Espresso)
I piccioli sono più efficaci della lupara, perché non fanno rumore e aprono tante porte. Tutte le mafie moderne lo hanno capito, mettendo da parte i kalashnikov per armarsi di mazzette o della forza intimidatoria per corrompere. E non è una buona notizia, anzi: questa metamorfosi ha già segnato un'evoluzione micidiale, capace di stringere in una morsa letale economia e istituzioni italiane.

Gli omicidi dei clan continuano a calare e hanno un profilo sempre più basso: nel 1991 erano 718, mentre nel 2013 sono stati soltanto 52, tante vendette nell'ombra senza agguati spettacolari. Basti pensare che lo scorso anno a Palermo c'è stata una sola esecuzione riconducibile a Cosa Nostra. Allo stesso tempo però cresce la penetrazione finanziaria delle cosche, che investono e muovono capitali infiniti. Tanto che l'ultima relazione della Direzione Nazionale Antimafia ha messo la nuova minaccia al primo posto, con un'analisi firmata dal procuratore Franco Roberti: la corruzione adesso è «fattore strategico e strumentale dell'espansione mafiosa».
L'allarme rosso nasce da tante inchieste in giro per il Paese che fanno vedere come la mafia è cambiata rispetto a vent'anni fa, soprattutto sulla penetrazione negli affari dell'Italia centro-settentrionale: dai cantieri della ricostruzione dell'Abruzzo e dell'Emilia a quelli dell'Expo milanese. Ed è frutto di un calcolo semplice: mentre i vecchi metodi violenti provocano allarme e condanne pesanti, con le tangenti si rischia pochissimo. I dati che "l'Espresso" pubblica in esclusiva rivelano che a fine febbraio su quasi 60 mila persone detenute in Italia, solo 522 erano state arrestate per corruzione. E solo la metà sta scontando sentenze definitive: gli altri hanno speranze concrete di evitare il verdetto grazie alla prescrizione che divora i processi. Lo ha sottolineato lo stesso Roberti: «Negli ultimi vent'anni si è fatto molto contro la criminalità mafiosa, sia pure in chiave emergenziale e per reagire all'esplosione di violenza stragista del 1992-93, il contrasto alla corruzione e alla criminalità economica non è mai entrato nelle strategie e negli obiettivi di alcun governo».
Le aule dei tribunali ci raccontano continui malaffari che mettono insieme mafiosi e corrotti. Non è un caso se nelle ultime indagini sulla criminalità organizzata i boss siano sempre più spesso in compagnia di dirigenti e impiegati della pubblica amministrazione, politici, magistrati, appartenenti alle forze dell'ordine, accusati di essersi piegati a colpi di mazzette e di avere in questo modo avvantaggiato i clan. E quando la "stecca" non basta ecco arrivare la violenza mafiosa a "convincere" i corrotti. I soldi cementano complicità silenziose, mentre attentati ed esecuzioni mobilitano i mass media e la reazione delle istituzioni: le pene in questi casi sono dure e la prescrizione scatta solo dopo decenni. Con le mazzette, poi, si possono costruire catene di collusione, inanellando nuove pedine sulla scacchiera di potere delle cosche: un ingranaggio che lentamente può contaminare interi settori del Paese. E oggi i boss sono quelli che hanno a disposizione più denaro liquido da spendere.

I clan si trasformano in cordate, con imprenditori, politici, funzionari di riferimento che vengono poco alla volta inglobati nella macchina criminale: finiscono a libro paga e si ritrovano ad essere parte attiva della congregazione. Nei primi anni Ottanta, quando i boss decidevano la spartizione degli appalti, in Campania e Sicilia venne creato il "tavolino" attorno al quale si sedevano mafiosi, imprenditori e uomini di partito che si spartivano gli affari. Erano soggetti distinti, adesso invece stanno diventano un'unica entità. «In realtà corruzione, criminalità economica e criminalità mafiosa sono tre facce di un'unica realtà. La criminalità mafiosa trae costante alimento dalle prime due», scrivono i magistrati.
LA MACCHINA DEGLI APPALTI - Le cordate sanno ben sfruttare le gare d'appalto con il meccanismo del massimo ribasso. Creano pool di ditte, che presentano offerte con percentuali di sconto molto simili tra di loro, variando solo le cifre decimali. Questa operazione consente di spostare la media delle offerte in modo che alla fine vince sempre una impresa del gruppo, mentre le altre rientrano nella partita con subappalti o altri contratti.

La procura dell'Aquila ha scoperto che per la ricostruzione delle case crollate nel terremoto del 2009 – sovvenzionata con denaro pubblico – era stato formulato un patto tra imprese locali, che ottenevano i lavori, e clan dei casalesi che fornivano manodopera, spesso obbligata a versare parte dello stipendio ai boss. È un'altra delle trasformazioni manageriali della criminalità, che offre servizi alle aziende: manovalanza, sicurezza, prestiti a basso tasso, ma anche – nelle regioni meridionali – la possibilità di intervenire negli uffici di comuni, regioni e organismi di controllo per garantire l'approvazione delle pratiche.
L'AFFARE DEL TERREMOTO - Il modello è Massimo Carminati, il "Cecato" che ha visto lontano, quando parla della "terra di mezzo", la zona grigia tra i "vivi" e i "morti", tra i colletti bianchi e i criminali di strada, dove «tutti si incontrano». Perché i re di denari restano comunque capaci di agire con la violenza, per imporre il rispetto dei patti e risolvere le controversie. Carminati – stando ai giudici del Tribunale della Libertà – offre una scorciatoia «necessaria all'imprenditore disonesto per risolvere i problemi che non può affidare al proprio legale; sta parlando dell'attività delinquenziale necessaria per infiltrarsi nei meccanismi della pubblica amministrazione ed inquinare il regolare svolgimento delle gare, attraverso sia la corruzione dei pubblici ufficiali che la intimidazione di quelli meno disponibili ed inclini a sottostare alle loro pretese e degli imprenditori concorrenti, riuscendo ad ottenere, così, l'acquisizione di appalti da parte di compagini riconducibili all'associazione criminale». Chi ne paga le conseguenze sono i cittadini che ricevono servizi scadenti, mentre si spreca tanto denaro pubblico.
La ricostruzione dell'Abruzzo è stata un'occasione d'oro per le joint venture delle cosche. La prefettura dell'Aquila ha bloccato 37 operatori economici, interdetti perché ritenuti collusi o oggetto di ingerenze mafiose: 28 erano impegnati in opere pubbliche e nove negli interventi affidati dai privati con l'impiego di contributi statali. Tra le ditte interdette undici hanno sede nel Nord, 19 nel Centro (di cui 12 a L'Aquila) e sette nel Sud: una mappa che fa capire come capitali e interessi mafiosi si siano infilati nella pancia di aziende locali, diventate i cavalli di troia dell'espansione. Lo stesso fenomeno si è registrato con l'Expo: delle 46 interdittive per sospette infiltrazioni criminali, con contratti per un valore vicino ai cento milioni di euro, solo undici hanno riguardato ditte meridionali. Per la superprocura, «il rischio che si crei un sistema di connessioni perverse tra società civile e "società mafiosa" che si autoalimenti è serio e reale perché la criminalità organizzata ha un'elevata capacità di infiltrarsi nel tessuto economico e sociale, riesce a instaurare relazioni con la società civile e si alimenta con la collusione e la corruzione che possono essere sconfitte solo con scelte politiche forti e coraggiose e pene severissime ed effettive per chi attenta alla nostra democrazia colpendo l'economia e lo sviluppo».
Le interdittive dei prefetti fanno meno paura degli ordini di arresto. Sono misure amministrative, non si rischia il carcere: l'imprenditore può fare ricorso al Tar, che spesso accoglie gli appelli. E al limite, basta cedere la società a un altro prestanome per ricominciare il business. Così questo cancro si è diffuso in silenzio. L'attenzione è rimasta focalizzata sui fatti di sangue, sulla componente militare dei clan che, in Sicilia come in Campania, è ferma da anni: l'ultima ondata di piombo è quella scatenata dal killer casalese Giuseppe Setola, anche lui detto "o Cecato", alla fine del 2008. Una parte dell'apparato investigativo ha continuato a concentrarsi sulla minaccia dei boss a mano armata, «trascurando, invece, quella più subdola e coinvolgente della corruzione e perché, anche laddove si è parlato di vicende di corruzione connesse alla criminalità organizzata, più che sulla tecnica del coinvolgimento corruttivo, ci si è forse superficialmente soffermati solo sull'aspetto scandalistico legato al nome o agli incarichi dei pubblici funzionari coinvolti». Puntare contro la mafia militare mette tutti d'accordo, è il contrasto alla corruzione che invece crea spaccature e malumori, specie fra i politici.
L'OSPEDALE IN MANO AL CLAN - La sanità è uno dei primi campi dove i mafiosi hanno sostituito la pistola con la mazzetta, sfruttando in pieno la capacità di inserimento negli uffici delle Asl. Si è visto nella Locride, dove in alcuni centri clinici medici e capiclan vengono dalle stesse famiglie. E c'è una vicenda clamorosa, portata alla luce a fine gennaio da un'operazione della Dia, coordinata dai pm di Napoli: dal 2006 nell'ospedale di Caserta tutte le decisioni chiave sono state arbitrate da Francesco Zagaria, cognato del padrino casalese Michele Zagaria. L'uomo aveva addirittura un ufficio all'interno del nosocomio, dove decideva le nomine dei dirigenti, gli appalti, i contratti delle forniture e creava corsie preferenziali per le visite e gli esami dei pazienti cari alle famiglie. Ovviamente questo plenipotenziario agiva anche per conto della politica: all'inizio era sostenuto dall'allora segretario regionale dell'Udeur, Nicola Ferraro, che con il suo appoggio riuscì a far nominare un suo uomo di fiducia come dirigente generale dell'ospedale. Nel 2008 con la caduta del governo Prodi si passa alla "copertura politica" del Pdl campano, all'epoca controllato da Nicola Cosentino, che per gli inquirenti è rimasto il referente politico del "sistema criminale" che controllava l'ospedale casertano fino al momento del suo arresto, avvenuto nel marzo 2013. Un sistema collaudato e protetto anche dalla politica, attraverso la nomina di dirigenti compiacenti, che garantiva, a sua volta, un pieno appoggio elettorale al partito che lo sosteneva.
I magistrati non hanno dubbi: «La corruzione è un fenomeno assolutamente dilagante perché è stato per troppo tempo tollerato, in qualche modo giustificato e quindi non efficacemente contrastato né a livello giudiziario né a livello di prevenzione». Non solo: «Vi è stato un deciso arretramento su questo fronte, quando sono state assicurate ampie prospettive di impunità per il falso in bilancio, che è la premessa di ogni accumulazione di denaro nero finalizzato al pagamento di tangenti a politici e mafiosi e, quindi, rinunciando a uno strumento indispensabile per il controllo sulla trasparenza in campo economico e imprenditoriale». La soluzione per sconfiggere questa nuova mafia? La più radicale. Come scrive la Dna, «la riforma della pubblica amministrazione è necessaria per semplificare e rendere più trasparente la macchina burocratica. Semplicità e trasparenza giovano alla lotta contro le mafie, perché giovano al contrasto alla corruzione e favoriscono i controlli sugli atti della pubblica amministrazione. Ma non bastano. Perché molto spesso, soprattutto per i grandi appalti, gli accordi illeciti si fanno "a monte" saltando tutti i controlli».
Intanto il sospirato emendamento del governo sul reato di falso in bilancio è stato presentato in Commissione Giustizia del Senato, dove è in discussione il disegno di legge anticorruzione. Il presidente dell'Aula Pietro Grasso, che due anni fa è stato primo promotore di queste norme, ha accolto la notizia con queste parole, particolarmente emblematiche della vicenda del provvedimento: «C'è una buona notizia. Alleluia, alleluia! Il famoso emendamento sul falso in bilancio è arrivato e questa è una novità importante». Un primo passo, per colpire almeno il tesoro in nero che rende potenti i colletti bianchi delle famiglie.
Lirio Abbate

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