Oltre i due temi discussi sopra, nel romanzo vi è la classica, e per certi versi banale, storia d’amore: un misterioso, affascinante e benestante uomo dagli occhi magnetici s’invaghisce di Tilottama, nonostante lei abbia dovuto “indossare” il corpo di una settantenne. E come tutte le storie d’amore che si rispettino, nonostante le difficoltà iniziali che “dividono” i due amanti, essi riescono infine a coronare il loro sogno d’amore. Ma a differenza di molti innamorati che si estraniano dal mondo, vivendo avulsi dalla realtà il loro amore, e cercando una sorta di “eden” in cui poter realizzare la loro favola, Tilottama sceglie di viverlo dentro il mondo «[…] perché il paradiso in terra non esiste. C’è solo quello che possiamo fare laggiù, nel fumo, tra le macerie e la carne carbonizzata. In mezzo a pistole e aghi, tra la polvere bianca della droga, i ragazzi e le ragazze che sognano ricchezza e potere e si risvegliano in una cella. Sì, tra l’odio e la paura». Così attraverso una narrazione abbastanza fluida e in prima persona, si esplica un continuo dialogo tra la protagonista e le spezie, che fungono da super-io e coscienza (una sorta di grillo parlante al plurale), con le quali Tilottama s’interroga sulla moralità e correttezza delle sue azioni, che la porteranno a trasgredire man mano tutti i divieti imposti. Ciò rende sicuramente la protagonista, ed in generale la storia narrata da Chitra Banerjee Divakaruni, nella sua fiabesca originalità, più realistica, più vicina ai dilemmi che quotidianamente ci affliggono: se sia giusto osservare i divieti e “vivere” il mondo in maniera distaccata per non lasciarsi irretire dai suoi tentacoli (in un certo senso quello che teorizza la filosofia indiana dello Yoga), o se sia più doveroso affrontare i conflitti, le ingiustizie e le iniquità dell’esistenza. La scrittrice bengalese sceglie apertamente quale via sia preferibile. Ed infatti, ponendosi lo stesso dilemma, arrivava infine a concludere Herman Hesse in “Siddharta”: «Ho appreso, nell’anima e nel corpo, che avevo molto bisogno del peccato, avevo bisogno della voluttà, dell’ambizione, della vanità, e avevo bisogno della più ignominiosa disperazione, per imparare la rinuncia a resistere, per imparare ad amare il mondo, per smettere di confrontarlo con un certo mondo immaginato, desiderato da me, con una specie di perfezione da me escogitata, ma per lasciarlo, invece, così com’è, e amarlo e appartenergli con gioia».
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