Gulotta dopo aver passato 22 anni in carcere viene assolto e torna libero.
Dopo anni di vessazioni fisiche e morali e con il presunto complice suicidatosi in carcere. Chi paga?
Era il 15 febbraio del 2012 quando la Corte d’Assise di Appello di Reggio Calabria pronunciò la sentenza di assoluzione per Giuseppe Gulotta. Dopo 22 anni di reclusione finalmente affermarono che “Gulotta non c’entra nulla; abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto“.
Lui, ormai un uomo di 55 anni, tornava a vivere. Una storia di ingiustizia italiana che inizia a scriversi ben trentasette anni fa ed esattamente il 27 gennaio 1976 quando ad Alcamo Marina in un attentato all’interno della caserma, furono uccisi due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo.
Gulotta venne accusato insieme ad altri ed arrestato ad appena 18 anni. «Mi hanno picchiato, minacciato con la pistola in faccia, mi hanno sputato addosso, massacrato tutta la notte, costringendomi, a forza di botte, a confessare quello che non avevo commesso».
Trattamenti simili vennero riservati anche per il suo presunto complice, Giuseppe Vesco, che, nell’ottobre del 1976, sisuicidò nelle carceri di ”San Giuliano” a Trapani, in circostanze non del tutto chiare. Quell’uomo infatti, aveva una sola mano e impiccarsi con una corda legata alle grate era se non impossibile, certamente assai difficoltoso. Vesco fu quello che, stando agli atti, accusò gli altri ma ritrattò dicendo di essere stato torturato.
Dal carcere di San Giuliano, descrisse poi, nei minimi dettagli, il comportamento che i militari dell’arma avevano avuto nei suoi confronti per estorcergli delle finte confessioni. Altri due, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, furono implicati nella vicenda ma scapparono in Brasile.
A lottare in cella restò solo Gulotta che, nel 1990, venne condannato all’ergastolo. Poi il caso venne riaperto in seguito ad alcune confessioni rese note agli atti da parte di un carabiniere, Renato Olino, che abbandonò la divisa.
Lo scorso anno, dopo una battaglia infinita, dopo una giovinezza ed un’intera vita rubate, dopo aver visto la propria dignità calpestata, dopo tante sofferenze e privo di libertà, il marchio criminale che gli avevano impresso è stato finalmente cancellato: assolto da ogni accusa. Gulotta è tornato libero 22 anni dopo. E’ tornato dalla sua compagna che aveva conosciuto durante gli anni di prigionia e dalla quale ha avuto un figlio.
E’ tornato libero di essere e di fare l’uomo, il marito, il padre. Ma ci sono giorni, circa 8000 giorni, che non torneranno mai più. Giorni che gli sono stati rubati e che non possono racchiudersi all’interno di un semplice risarcimento economico. Il danno che quest’uomo ha subito non può essere quantificato.
Nemmeno 69 milioni di euro, quelli chiesti come indennità, possono ripagare ciò che lo Stato e la giustizia gli hanno tolto:la vita, la dignità, la libertà.
Leggendo in profondità l’ennesima storia (finita bene per fortuna) di malagiustizia, viene da pensare che se è vero che spesso si è, come è giusto che sia, lodato, applaudito, raccontato, intervistato, dato spessore alle attività di quegli uomini di giustizia che giornalmente lottano a rischio vita contro la malavita, è altrettanto vero e giusto dar voce e titolo a quelle vittime di giustizia malata. Più semplicemente, si parla di ingiustizia che ne ha fermato il tempo, rinchiudendo tanti innocenti in uno spazio e spezzando il cuore alle persone a loro care o che ne ha fermato il battito per presunzione di colpevolezza.
Inaccettabile. Ingiustificabile. Immorale. Ignobile. Ingiusto.
Se “finisce bene” infatti, uomini o donne dicono addio alla loro vita, alle loro famiglie, ai loro amici, alla loro dignità, al loro lavoro, al loro onore, per pochi mesi o qualche anno, a volte…..per molti, molti anni. Se si è davvero sfortunati, invece, si finisce in un loculo senza passare dalle sbarre, né dal pronto soccorso. A queste ultime vittime, isolate dal mondo terreno, che non possono più nemmeno raccontare la loro versione dei fatti, resta solo la diagnosi di una fredda autopsia e, a volte, non basta o non serve nemmeno quella per avere giustizia (così celere in altri casi).
Tutto questo, sia di conforto all’opinione pubblica per non dimenticare mai quelle persone innocenti che lottano contro la malagiustizia e contro l’idea che il mondo, giustizialista, si è fatto di loro.
Luca Baiera