La mano su di sé

Creato il 09 febbraio 2015 da Francosenia

Scritto nel 1845, e pubblicato l'anno successivo, il breve scritto di Marx che analizza il suicidio è passato quanto meno inosservato in tutti questi anni. Poche pagine, in realtà una glossa ed una traduzione in tedesco di alcuni passaggi delle "Mémoires tirés des archives de la police" di Jacques Peuchet, funzionario di polizia francese. Marx era rimasto affascinato da quella strana miscela di funzionario e di filosofo, capace di rivelare il discorso borghese, come di ispirare creazioni letterarie quali il Conte di Montecristo di Dumas. In quel rapporto di un funzionario di polizia si poteva leggere quella radiografia della coscienza moderna che non si riusciva a trovare nei tediosi trattati di diritto e di economia. Peuchet polemizzava con quei filosofi che consideravano il suicidio come un atto vile e contro natura e, pur senza arrivare all'idea di Walter Benjamin del suicida come eroe moderno, pensava che "il suicidio fosse nella natura della nostra società". Niente di meno vile! Il suicidio è "il sintomo di un vizio costitutivo della società moderna", era stata questa frase a catturare l'interesse del giovane Marx, che in quel periodo portava avanti le sue letture nel quadro di una "teoria dell'alienazione" dell'uomo sotto il capitalismo. Il suicidio è "un sintomo della mancanza di organizzazione" dell'economia capitalista - recita la trascrizione fattane da Marx.
Così Marx mostrava nel suo testo come il capitalismo fosse una formazione sociale che non opprimeva solamente i lavoratori, ma tutti gli individui delle più diverse origini e classi sociali. E come, fra le vittime "non proletarie" che venivano portate alla disperazione ed all'auto-annichilimento in seguito alle pressioni della società borghese, ci fossero, soprattutto, le donne. L'oppressione socio-politica-economica del capitalismo, nelle parole di Marx era la "tirannia familiare" (patriarcale) che permetteva agli uomini di trattare le loro mogli come se fossero oggetti, e che spingeva le donne alla tragica decisione di farla finita con la propria vita. Il suicidio era una sorta di protesta contro  una condizione barbara e degradante, e per questo doveva essere liberato da qualsiasi tipo di giudizio moralista, o condanna preconcetta. Si trova nello scritto di Marx, per quei tempi, una critica radicale e senza concessioni della subordinazione femminile e della natura oppressiva dell'organizzazione familiare vigente nella società capitalista. Vale la pena leggerlo.


DEL SUICIDIO E DELLE SUE CAUSE (1845)
di Karl Marx - Jacques Peuchet

La critica francese della società possiede almeno in parte il grande  vantaggio di aver messo in evidenza le contraddizioni e la mostruosità della vita moderna, non solo nei rapporti sociali di classi particolari, ma per tutti i gradi e le forme della civiltà odierna, e per di più con rappresentazioni di vivacità immediata, di intuizione profonda, di eleganza signorile e di ardita originalità, quali invano si cercherebbero presso qualunque altra nazione. Si confrontino per esempio le esposizioni critiche di Owen e Fourier, per quanto concernono il moto sociale, per farsi un'idea della superiorità dei Francesi (1). Ed in Francia non sono assolutamente solo i veri e propri scrittori «socialisti» quelli presso cui bisogna cercare l'esposizione critica delle condizioni sociali; sono scrittori appartenenti a ogni ramo della letteratura, ma specialmente gli scrittori di romanzi e di memorie. Fornirò per sommi tratti un esempio di questa critica francese a proposito del «suicidio » tratto dai “Memoires tires des archives de la police etc. par Jacques Peuchet(2); il che può servire altresì a mostrare fino a qual punto sia fondata l'idea dei borghesi filantropici, quasi si trattasse soltanto di dare al proletariato un po’ di pane e di educazione, quasi della situazione sociale odierna soffrisse il solo operaio, ma per il resto il mondo attuale fosse il migliore dei mondi.
Nelle pagine di Jacques Peuchet, come di molti Francesi appartenenti alla passata generazione di pratici, ormai quasi scomparsa, che è passata attraverso gli innumeri rivolgimenti seguiti al 1789, le innumeri illusioni, entusiasmi, costituzioni, regimi, cadute e vittorie, si trova la critica dei rapporti di proprietà, di famiglia e degli altri rapporti privati, in una parola della vita privata, considerata quale risultato necessario delle loro esperienze politiche.
Jacques Peuchet, nato nel 1760, passò dalle belle lettere alla medicina, dalla medicina alla giurisprudenza, dalla giurisprudenza all'amministrazione e al dipartimento di polizia. Prima dello scoppio della Rivoluzione francese lavorò con l'abate Morellet (3) ad un Dictionnaire du commerce, di cui finora è apparso solo il prospetto, e in quel periodo si interessò soprattutto di economia politica e di amministrazione. Per brevissimo tempo soltanto Peuchet fu partigiano della Rivoluzione; ben presto passò al partito realista, tenne per un certo periodo la direzione della « Gazette de France» e financo si sobbarcò dopo Mallet du Pan (4) la direzione dello screditato giornale realista «Mercure». Quindi si destreggiò molto abilmente attraverso la rivoluzione, ora perseguitato, ora impiegato nella divisione dell'amministrazione e della polizia. La Geographic commercanie (5 volumi in folio), ch'egli pubblicò nel 1800, richiamò su di lui l'attenzione di Bonaparte primo console, che lo nominò membro del Conseil du commerce et des arts. Più tardi, sotto il ministero del François de Neufchâteau (5), occupò nell'amministrazione una carica più importante. Nel 1814 la restaurazione lo nominò censore. Durante i Cento giorni egli si tenne in disparte e col ritorno dei Borboni ottenne il posto di archivista della prefettura di polizia di Parigi, dove rimase fino al 1827 (6). Peuchet si rivolgeva, e non senza influenza quale pubblicista, agli oratori della Costituente, della Convenzione e del Tribunato, come pure sotto la Restaurazione alle Camere dei deputati. La più famosa delle sue numerose opere, per lo più economiche, oltre alla già citata Geografia commerciale, è la Statistica di Francia (1807).
Servendosi del materiale degli archivi della polizia di Parigi e della sua lunga esperienza pratica nell'amministrazione e nella polizia, Peuchet compose da vecchio le proprie memorie e le lasciò pubblicare soltanto postume, così che non lo si potesse in nessun caso annoverare fra gli «sconsiderati» socialisti e comunisti, dai quali tanto nettamente si distacca in maniera inequivocabile la meravigliosa concretezza e la completezza di cognizioni del nostro misurato scrittore, funzionario e borghese pratico.
Ascoltiamo quanto il nostro archivista della prefettura parigina di polizia dice riguardo al suicidio. (7)
II numero annuale dei suicidi, che fra noi è a un di presso normale e periodico, si deve considerare come un sintomo della difettosa organizzazione della nostra società; poiché nel periodo di ristagno e di crisi dell'industria, nelle epoche di aumento del costo della vita e negli inverni aspri questo sintomo è sempre più evidente e assume un carattere epidemico. In tali periodi la prostituzione e il furto aumentano nella stessa proporzione. Sebbene la principale causa di suicidio sia la miseria, lo si ritrova presso tutte le classi, fra i ricchi oziosi come fra gli artisti e i politicanti. La diversità delle cause che lo motivano schernisce la monotona e insensibile condanna dei moralisti.
Le malattie di consunzione, contro cui la scienza moderna è impotente o insufficiente, l'amicizia tradita, l'amore ingannato, l'ambizione avvilita, i dolori familiari, l'emulazione soffocata, il fastidio di una vita monotona, un entusiasmo costretto a ripiegarsi su se stesso, tutte queste situazioni costituiscono certamente altrettanti impulsi al suicidio per nature di più ricco sentire, e l'amore stesso della vita, questa energica forza centrifuga della personalità, porta molto sovente a staccarsi da un'esistenza aborrita.
La signora di Staël, il cui merito maggiore consiste nell'aver espresso con brillante eleganza dei luoghi comuni, ha cercato di provare che il suicidio è un'azione contro natura e che non si può considerarlo come un atto di coraggio; ha messo in evidenza che sarebbe cosa più degna combattere la disperazione, anziché soggiacervi. Simili ragionamenti fanno poca presa sugli animi sopraffatti dalla sventura: se sono religiosi, speculano su un mondo migliore; se non credono in nulla, cercano la pace del nulla. Ai loro occhi le prediche filosofiche non hanno alcun valore e rappresentano un ben debole riparo contro i dolori. E’ anzitutto insulso affermare che un'azione così frequente sia un'azione contro natura; il suicidio non è affatto contro natura, perché vi assistiamo ogni giorno. Ciò che è contro natura non avviene; mentre invece è nella natura della nostra società di generare molti suicidî, il che non avviene fra i Tartari. Dunque non tutte le società hanno gli stessi prodotti, questo è quanto dobbiamo dirci per lavorare alla riforma della nostra e farla salire ad un livello superiore. Per quanto riguarda il coraggio, se si passa per coraggioso allorché si affronta la morte in pieno giorno sul campo di battaglia sotto il dominio di tutte le eccitazioni riunite, nulla dimostra che si manchi di coraggio se ci si dà la morte da se stessi e in tenebrosa solitudine. Non si scioglie una simile questione insultando i morti.
Tutto ciò che si è detto contro il suicidio si muove nella stessa cerchia di idee. Gli si contrappongono i decreti della provvidenza, ma l'esistenza stessa del suicidio è un'aperta protesta contro i decreti imperscrutabili. Si parla di nostri doveri verso questa società, senza indicare e realizzare d'altra parte i nostri diritti di fronte alla società; e infine si esalta il merito mille volte maggiore di sopportare il dolore anziché soccombervi: merito altrettanto malinconico della prospettiva da esso aperta. Insomma si fa del suicidio un atto di vigliaccheria, un delitto contro le leggi, la società e l'onore.
Come mai, nonostante tanti anatemi, l'uomo si suicida? Perché nelle vene della gente disperata il sangue non scorre nello stesso modo del sangue degli esseri freddi, che si prendono lo svago di recitare tutti questi sterili discorsi. L'uomo è un mistero per gli uomini: lo sappiamo solo condannare e non lo conosciamo. Se si osserva con quanta leggerezza le istituzioni, che governano l'Europa, decidono della vita e della morte dei popoli, di che abbondante materiale di carceri, di punizioni, di strumenti di morte si circondi la giustizia civilizzata per sanzionare i suoi incerti decreti; se si osserva l'incredibile numero di classi, che da ogni lato vengono lasciate in miseria, e i paria sociali, su cui grava un brutale e pregiudiziale disprezzo, forse per dispensarsi dalla fatica di strapparli dal loro fango; se si osserva tutto questo, non si comprende a quale titolo si possa ordinare all'individuo di apprezzare per se un'esistenza, che le nostre abitudini, i nostri pregiudizi, le nostre leggi e i nostri costumi calpestano in tutti i modi.
Si è creduto di poter impedire i suicidi per mezzo delle punizioni oltraggiose e d'una specie di infamia, con cui si bolla a fuoco la memoria del colpevole. Che dire dell’indegnità di un marchio impresso su gente che non è più presente a perorare la propria causa? Del resto gli sventurati se ne rattristano ben poco; e se il suicidio incrimina qualcuno, si tratta anzitutto della gente che resta, perché in questa massa non uno merita che si continui a vivere per lui. Forse che i mezzi infantili e inumani, che si sono escogitati, hanno combattuto con successo contro l'insinuarsi della disperazione? Che importa all'essere che vuol fuggire dal mondo delle offese che il mondo infligge al suo cadavere? In questo si riscontra solo una vigliaccheria in più da parte dei viventi. In realtà, che specie di società è quella, dove si trova il più profondo isolamento in seno a più milioni di individui; dove si può essere sopraffatti da un'esigenza invincibile di uccidersi, senza che alcuno ci comprenda? Questa società non è una società; è piuttosto, come dice Rousseau, un deserto popolato di fiere selvagge. Nelle cariche da me ricoperte presso l'amministrazione di polizia i suicidi costituivano una parte delle mie competenze; volevo imparare a conoscere, se fra le loro cause determinanti non se ne trovassero alcune, di cui si potesse prevenire l'azione. Intrapresi un'ampia indagine in proposito. Trovai che, eccettuata una riforma totale dell'attuale ordinamento sociale, tutti gli altri tentativi riuscirebbero infruttuosi.
Tra le cause della disperazione che induce persone molto eccitabili, nature appassionate e di profondo sentire, a cercare la morte, ho scoperto quale causa predominante il malvagio trattamento. Le ingiustizie. Le punizioni segrete, che genitori e superiori crudeli fanno soffrire alle persone da essi dipendenti. La rivoluzione non ha abbattuto tutte le tirannie; i mali, di cui si incolpavano le autorità dispotiche, rimangono nelle famiglie: in queste essi provocano crisi analoghe a quelle delle rivoluzioni.
I rapporti fra gli interessi e i sentimenti, le vere relazioni fra gli individui sono da ricercarsi alla loro radice solo fra di noi, ed il suicidio non è che uno dei mille sintomi della generale e sempre rinnovantesi lotta sociale, da cui tanti combattenti si ritirano perché stanchi di fare da vittima, o perché si ribellano al pensiero di occupare un posto d'onore fra gli aguzzini.
Se si vogliono esempi, li trarrò da documenti autentici.
Nel luglio del 1816 la figlia di un sarto si fidanzò con un macellaio, un giovane di buoni costumi, parsimonioso e attivo, molto innamorato della sua bella fidanzata, che da parte sua sentiva per lui grande inclinazione. La ragazza faceva la sarta, godeva della stima di tutti coloro che la conoscevano e i genitori del promesso sposo l'amavano teneramente. Questa brava gente non trascurava occasione per anticipate l'acquisto della nuora; si combinavano feste, di cui essa era la regina e l'idolo.
Giunse l'epoca del matrimonio; tutte le disposizioni fra le due famiglie erano state prese e il contratto concluso. La sera avanti il giorno fissato per recarsi in municipio, la giovane e i suoi genitori dovevano cenare con la famiglia dello sposo; sopraggiunse imprevisto un incidente insignificante. Lavori da terminare per una famiglia di ricchi clienti trattennero a casa il sarto e la moglie. Essi si scusarono, ma la madre del macellaio venne di persona a prendere la nuora, che ricevette il permesso di seguirla.
Nonostante l'assenza di due degli ospiti più importanti, il pranzo fu dei più sereni. Ebbero luogo in seno alla brigata molti degli scherzi familiari che sono leciti la vigilia delle nozze. Si bevve e si cantò; si parlò del futuro; si illustrarono con molta vivacità le gioie di un buon matrimonio. A tarda ora della notte erano ancora a tavola. Con indulgenza facilmente spiegabile i genitori del giovanotto chiusero gli occhi sulla silenziosa intesa dei due promessi. Le mani si cercavano, l'amore e l'intimità davano loro alla testa. Inoltre si consideravano le nozze come ormai compiute, e i due giovani si erano frequentati troppo tempo senza che si potesse far loro il minimo rimprovero. La commozione dei genitori del fidanzato, l'ora avanzata, i reciproci appassionati desideri lasciati liberi dall'indulgenza dei loro mentori, la cordiale giocondità che sempre regna in tali pranzi, tutto questo unito, e l'occasione che si presentò ridendo, e il vino che annebbiava le menti, tutto favorì una loro uscita, che si lascia immaginare. E quando i lumi furono consumati, i due giovani si trovarono di nuovo al buio. Nessuno mostrò di farci caso. La loro felicità aveva qui solo amici e nessun invidioso.
La ragazza tornò dai suoi solo il mattino dopo. Una prova di quanto poco si ritenesse colpevole si ha nel fatto che ritornò sola. Sgusciò in camera sua e si rassettò; ma i genitori, non appena la scorsero, la coprirono con furore dei titoli e delle invettive più atroci. Il vicinato ne fu testimone e lo scandalo non ebbe più limiti, agli occhi atterriti di questa ragazza, attraverso il pudore e il mistero che veniva obbrobriosamente offeso. Invano la sgomenta giovane fece presente ai genitori che essi le facevano perdere la reputazione, che ammetteva la propria colpa, pazzia e disobbedienza, ma che tutto sarebbe tornato in ordine. Le sue ragioni e il suo dolore non disarmarono la coppia di sarti. Gli uomini più vili e remissivi diventano inflessibili non appena possono far valere la propria assoluta autorità paterna. L'abuso della medesima costituisce del pari un grossolano risarcimento per le molte umiliazioni e soggezioni cui tale autorità, volente o nolente, soggiace nella società borghese. Al baccano accorsero padrino e madrina e fecero coro. Il sentimento di vergogna suscitato da questa scena indecente portò la ragazza alla decisione di togliersi la vita; discese a rapidi passi in mezzo alle comari urlanti e insultanti con occhi spiritati, corse alla Senna e si buttò nel fiume. I barcaioli la trassero morta dall'acqua, ornata delle sue gioie da sposa. Come ben s'intende, coloro che prima gridavano contro la figlia si rivoltarono subito contro i genitori; la catastrofe atterrì quelle anime vuote. Pochi giorni dopo i genitori vennero alla polizia per reclamare una catena d'oro, che la ragazza portava al collo, regalo del futuro suocero, un orologio d'argento e diverse altre piccole gioie: oggetti che ovviamente erano depositati nell'ufficio. Non mancai di rimproverare energicamente quella gente per la loro ottusità e barbarie. Il dire a questi pazzi che ne avrebbero dovuto render conto a Dio, avrebbe fatto su loro ben scarsa impressione, considerando i loro meschini pregiudizi e la tipica forma di religiosità che vige negli ambienti più bassi del piccolo commercio.
L'avidità li spingeva nel mio ufficio, non il desiderio di possedere due o tre reliquie; credetti di poterli punire per mezzo di questa stessa loro avidità. Essi reclamavano le gioie della figlia; io le ricusai e trattenni i certificati che occorrevano loro per poter togliere questi ornamenti dalla cassa, dove come d'uso erano stati deposti. Finché rimasi in tale ufficio, i loro reclami restarono lettera morta e trovai un certo piacere nello sfidare le loro proteste.
Nello stesso anno si presentò al mio ufficio un giovane creolo, di aspetto seducente, appartenente a una delle più ricche famiglie della Martinica. Si opponeva nel modo più deciso a che si restituisse il cadavere di una giovane signora, sua cognata, al reclamante, suo proprio fratello e di lei marito. Costei si era annegata. Questo genere di suicidio è il più frequente. Il cadavere era stato ritrovato non lontano dal cimitero d'Argenteuil dal personale addetto a ripescare i cadaveri. Per un ben noto istinto di pudore, che domina le donne anche nella più cupa disperazione, l'annegata si era accuratamente avvolto attorno ai piedi l'orlo delle vesti. Questa vereconda attenzione provava ad evidenza il suicidio. Non appena ritrovata, essa era stata portata all'obitorio. La sua bellezza, la giovinezza, l'elegante vestito offrivano occasione a mille ipotesi sulla causa della catastrofe. La disperazione del marito, che per primo la riconobbe, fu senza limiti; non capiva questa disgrazia, almeno a quanto mi si disse; prima non l'avevo mai visto. Feci presente al creolo che la richiesta del coniuge ha diritto di precedenza su tutte le altre, tanto più che colui faceva erigere per la sventurata moglie un meraviglioso mausoleo di marmo. - Dopo che l'ha uccisa! E incredibile! - gridò il creolo mentre correva su e giù eccitato.
Dall'eccitazione, dalla disperazione di questo giovane, dalle sue fervide preghiere di acconsentire al suo desiderio, dalle sue lacrime credetti di poter concludere che egli l'amava, e glielo dissi. Lo ammise, ma con le più energiche assicurazioni che la cognata non ne aveva mai saputo nulla. Lo giurò anche. Solo per salvare il buon nome della cognata, sotto il cui suicidio l'opinione pubblica sospettava, come al solito, un intrigo, egli intendeva mettere in chiaro la crudeltà del fratello e doveva porre se stesso sul banco degli accusati. Mi pregò di appoggiarlo. Quanto potei raccogliere dalle sue rotte e appassionate spiegazioni fu questo: suo fratello, il signor di M., ricco e cultore dell'arte, amante del lusso e dell'alta società, aveva sposato quella giovane donna da circa un anno, a quanto pare per reciproca inclinazione; costituivano la più bella coppia che si potesse vedere. Dopo il matrimonio si era manifestata nella costituzione del giovane sposo un'infezione del sangue, forse una malattia ereditaria, improvvisa e virulenta. Quest'uomo, prima tanto superbo del suo bell'aspetto, dei suoi modi eleganti, di una compiuta perfezione di forme senza pari, soggiacque improvvisamente a un male ignoto, contro i cui guasti la scienza risultava impotente; era mutato dalla testa ai piedi nel modo più tremendo. Aveva perduto tutti i capelli; la spina dorsale gli si era incurvata; di giorno in giorno la magrezza e le rughe lo mutavano nel modo più sorprendente; per gli altri almeno, poiché il suo amor proprio cercava di negare l'evidenza.
Ma tutto ciò non lo costrinse a letto; una tempra di ferro parve trionfare degli attacchi di questo male. Egli sopravviveva pieno di forza alla propria rovina: il corpo cadeva e l'anima rimaneva in piedi. Continuò a dar feste, a organizzare partite di caccia e a mantenere il suo ricco e fastoso tenore di vita, che pareva costituire la legge del suo carattere e della sua natura. Tuttavia le offese, le allusioni, gli scherzi degli studenti e dei monelli quando caracollava a cavallo pei viali, gli scortesi e beffardi sorrisi, i premurosi avvertimenti degli amici sulla figura ridicola che faceva coi suoi ostinati atteggiamenti galanti accanto alle dame, tutto ciò dissolse alfine la sua illusione e lo rese guardingo con se stesso. Non appena si rese conto della propria bruttezza e deformità, non appena ne ebbe coscienza, il suo carattere s'inasprì ed egli divenne timido. Apparve meno disposto a condurre la moglie a serate, a balli e concerti, si rifugiò nella sua abitazione di campagna, pose fine a tutti gli inviti, cercò mille pretesti per evitare la gente. Le cortesie degli amici verso sua moglie, da lui tollerate finché la superbia gli dava la certezza della propria superiorità, lo resero geloso, diffidente, violento. In tutti coloro che persistevano nel fargli visita vide il fermo proposito di far capitolare il cuore della moglie, che gli rimaneva quale ultimo orgoglio e consolazione. A quest'epoca il creolo giunse dalla Martinica per affari che parevano aver per scopo di favorire il ritorno dei Borboni sul trono di Francia. La cognata lo ricevette molto bene e, nel naufragio di innumerevoli relazioni da lei contratte in passato, egli godette del vantaggio, che la sua qualifica di fratello gli dava naturalmente presso il signor di M. Il nostro creolo comprese la solitudine che si stava formando intorno alla casa, sia dai diretti litigi che suo fratello ebbe con molti amici, sia da mille espedienti indiretti per scacciare i visitatori e scoraggiarli. Senza rendersi nettamente conto del movente sentimentale, che rendeva geloso anche lui, il creolo approvò questi propositi di isolamento e li favorì coi propri consigli. Il signor di M. finì col ritirarsi completamente a Passy, in una bella casa, che in breve diventò un deserto. La gelosia si alimenta delle minime cose; quando non sa a che appigliarsi, si strugge in se stessa e diventa inventiva; tutto serve per alimentarla. Forse la giovane donna bramava i divertimenti propri della sua età. I muri toglievano la vista delle case vicine; le imposte restavano chiuse dal mattino alia sera. La sventurata donna era condannata alla più insopportabile schiavitù, e tale schiavitù la esercitava solo il signor di M., appoggiandosi al codice civile e al diritto di proprietà, appoggiandosi alla condizione sociale che fa dell'amore una cosa indipendente dai liberi sentimenti degli amanti e permette al marito geloso di circondare la moglie di serrature, come l'avaro la propria cassaforte, poiché la moglie costituisce semplicemente una parte dei suoi beni. Durante la notte il signor di M. girava armato attorno alla casa e faceva la ronda con cani. Si mise in testa di riscontrare orme sulla sabbia e si perdette in strambe supposizioni a proposito di una scala a pioli, che aveva mutato di posto per opera del giardiniere. Lo stesso giardiniere, un ubriacone sessantenne, fu messo di guardia al portone. La mania di imporre divieti non conosce freni alle proprie stravaganze, prosegue fino alle inezie. Il fratello, complice involontario di tutto questo, comprese infine di lavorare per l'infelicità della giovane signora che, sorvegliata giorno per giorno, insultata, privata di tutto quanto potesse distrarre una fantasia ricca e felice, diventava tanto triste e malinconica quanto più era stata libera e serena. Ella piangeva e nascondeva le lacrime, ma ne erano visibili i segni. Il creolo fu preso da rimorsi. Deciso ad aprirsi con la cognata ed a rimediare a un errore, che certo era sorto da un nascosto senso d'amore, una mattina entrò furtivamente in un boschetto del parco dove di tempo in tempo la prigioniera andava a prendere aria e a curare i suoi fiori. Bisogna ben pensare che nel fruire di questa pur ristretta libertà ella rimanesse sotto la vigilanza del geloso marito; infatti, alla vista del cognato, che per la prima volta e all'improvviso le si parava dinanzi, la giovane dama mostrò la più grande agitazione, si torse le mani e gli grido atterrita: - Allontanatevi, in nome del Cielo, allontanatevi!
Invero egli ebbe appena il tempo di nascondersi in una serra, che apparve improvviso il signor di M. Il creolo udì gridare, volle origliare, ma i battiti del proprio cuore gli impedirono di afferrare la più lieve parola di una spiegazione, a cui questa sua fuga, se lo sposo la scopriva, poteva dare un esito deplorevole. Questo incidente fece decidere il cognato: egli sentì la necessità, da tale momento, di diventare il difensore di una vittima. Si decise a superare ogni ritegno amoroso. L'amore può sacrificare tutto, tranne il suo diritto di protezione, poiché quest'ultimo sacrificio sarebbe proprio di un codardo. Egli continuò a far visita al fratello, deciso a parlargli chiaro, a rivelarsi, a dirgli tutto. Il signor di M. non nutriva ancora alcun sospetto da questo lato, ma questa assiduità del fratello gliene fece nascere. Senza comprendere chiaramente le cause di questo interessamento, il signor di M. ne provò diffidenza, indovinando dove poteva condurre. Il creolo si avvide presto che il fratello non era sempre assente, come poi affermava, tutte le volte che egli veniva inutilmente a suonare alla porta della casa di Passy. Un garzone fabbro gli fece una copia della chiave che il suo padrone aveva fabbricato per il signor di M. Dopo un'assenza di dieci giorni, una notte il creolo oltrepassò le mura della casa, esasperato dalla paura e tormentato dalle più folli chimere; forzò una grata davanti al cortile principale; per mezzo di una scala a pioli raggiunse il tetto e si lasciò calare lungo una grondaia fin sotto la finestra di un granaio.
Violente imprecazioni lo incoraggiarono a strisciare inosservato fino a una porta a vetri. Quanto vide gli lacerò il cuore. La luce di una lampada illuminava l'alcova. Sotto le cortine, i capelli in disordine e il volto paonazzo dalla rabbia, stava il signor di M., mezzo svestito, accovacciato accanto alla moglie sul letto stesso, che ella non osava abbandonare, sebbene a tratti si svincolasse da lui; egli rovesciava su di lei le più atroci minacce e pareva una tigre, pronta a farla a brani. - Si, - le diceva, - io sono brutto, sono insopportabile e so anche troppo che ti incuto paura. Tu vorresti che ti liberassero di me, che la mia vista non ti opprimesse più. Tu sogni il momento che ti renderà libera. E non dirmi il contrario; indovino i tuoi pensieri dal tuo terrore, dalla tua ripugnanza. Tu arrossisci dello sconcio ridicolo che io suscito, intimamente ti ribelli contro di me! Conti senza dubbio uno dopo l'altro i minuti che debbono passare prima ch'io non ti opprima più con le mie tare e la mia presenza. Sta' ferma! Terribili desideri mi assalgono, la frenesia di sfigurarti, di farti simile a me, affinché tu non possa più conservare la speranza di consolarti coi tuoi amanti della disgrazia di avermi conosciuto. Spaccherò tutti gli specchi di questa casa, perché non mi rinfaccino più la differenza, perché cessino di dare alimento alla tua superbia. Si, vero? Io dovrei portarti in società o lasciartici andare per vedere come ognuno ti incoraggi ad odiarmi? No, no, tu non lascerai questa casa prima di avermi ucciso. Uccidimi, previenimi in ciò ch'io sono tentato di fare tutti i giorni! - E il forsennato si rotolava sul letto gridando forte e digrignando i denti, con la schiuma alla bocca, con mille sintomi di pazzia, menandosi colpi furiosi da solo, accanto a quella donna infelice, che gli prodigava le più delicate carezze e il pianto più commovente. Infine riuscì a calmarlo. Senza dubbio la compassione aveva sostituito l'amore: ma questo non bastava a quell'uomo divenuto ributtante e i cui dolori avevano conservato tanta energia. Questa scenata ebbe come conseguenza un profondo abbattimento, che fece impietrire il creolo. Egli rabbrividiva e non sapeva a chi rivolgersi per strappare la sventurata a quella tortura mortale. Evidentemente questa scena doveva ripetersi tutti i giorni, poiché nelle convulsioni che ne seguirono la signora di M. ricorse a fiale di medicinali, predisposte all'uopo, per dare un po' di quiete al suo aguzzino. A quel momento il creolo rappresentava da solo a Parigi tutta la parentela del signor di M. E’ soprattutto in questi casi che si vorrebbe maledire la lentezza delle pratiche giudiziarie e la noncuranza della legge, che nulla riesce a smuovere dal suo andazzo ristretto: ossia si trattava solo di una donna, un essere che il legislatore tutela con garanzie minime. Solo un mandato di arresto, un provvedimento arbitrario avrebbero prevenuto la disgrazia, che il testimonio di questa pazzia prevedeva anche troppo bene.
Egli si decise pertanto a giocare il tutto per tutto, ad addossarsi tutte le conseguenze, in quanto la sua ricchezza lo metteva in grado di compiere enormi sacrifici e di non temere la responsabilità di alcun rischio. Già alcuni suoi amici medici, decisi quanto lui stesso, preparavano un'irruzione in casa del signor di M. per constatare questi momenti di pazzia e salvare entrambi i coniugi con un intervento immediato, quando l'avvenimento del suicidio venne a giustificare questi provvedimenti troppo tardivi e sciolse la difficoltà.
Certo, per chiunque non limiti il senso delle parole al loro significato letterale, questo suicidio fu un assassinio perpetrato dal marito; ma fu altresì il risultato di un'eccezionale uragano della gelosia. Il geloso ha bisogno di uno schiavo, il geloso può amare, ma per la gelosia l'amore è soltanto un sentimento di lusso: il geloso è anzitutto un proprietario privato. Impedii al creolo di fare un inutile e pericoloso scandalo: pericoloso anzitutto per la memoria della donna amata, poiché il pubblico ozioso avrebbe accusato la vittima di una relazione disonorante col fratello del marito. Fui presente alla sepoltura. Nessuno conosceva la verità, tranne il fratello e me stesso.
Attorno a me udivo mormorare cose indegne a proposito di questo suicidio e ne provavo disprezzo. Si ha vergogna dell'opinione pubblica, quando la si vede sotto l'aspetto del suo vile accanimento e delle sue sporche congetture. L'opinione è troppo divisa a causa dell'isolamento degli uomini, troppo ignorante, troppo corrotta, perché ciascuno è straniero a se stesso e tutti sono tali reciprocamente.
Del resto ben poche settimane trascorsero senza rivelarmi casi dello stesso genere. Nel medesimo anno registrai relazioni amorose, che a causa del diniego dei genitori di concedere il loro benestare si conclusero con un doppio colpo di pistola.
Presi nota altresì del suicidio di gentiluomini ridotti all'impotenza nel fiore dell'età, che l'abuso dei piaceri aveva gettato in una invincibile malinconia.
Molta gente inoltre finisce i propri giorni ossessionata dal pensiero che la medicina, dopo lunghi ed inutili tormenti di cure rovinose, è incapace a liberarla dai propri mali.
Si potrebbe raccogliere una rara antologia di passi di autori illustri e di poesie scritte da persone disperate, che prepararono la propria morte con un certo apparato. Nel momento di meraviglioso sangue freddo, che segue alla decisione di morire, spira da queste anime una specie di entusiasmo contagioso, che si trasfonde negli scritti, anche in seno alle classi prive di ogni istruzione.
Nel raccogliersi prima del sacrificio, di cui comprendono la profondità, tutte le loro forze si uniscono per dissanguarsi in una espressione ardente e caratteristica.
Alcune di queste poesie, sepolte negli archivi, sono capolavori.
Un ottuso borghese, che pone l'anima nel proprio negozio e Dio nel commercio, può trovare tutto ciò molto romantico e condannare col suo sorriso di scherno dolori che non comprende: il suo disprezzo non ci fa meraviglia. Che altro aspettarsi da gente che ha per unico credo il tre per cento e non sa pensare ad altro se non a uccidere giorno per giorno, ora per ora e pezzo a pezzo se stesso, la propria natura umana? Ma che dire poi della brava gente, che si atteggia a devota, a benpensante, mentre ne ripete le sconcezze? Senza dubbio è molto importante che i poveri diavoli sopportino la vita, anche se ciò avviene solo nell'interesse delle classi privilegiate di questo mondo, che sarebbe rovinato da un generale suicidio della plebaglia; ma non ci sarebbe alcun altro mezzo per rendere sopportabile l'esistenza a questa classe, oltre all'offesa, lo scherno e le belle parole? Dopo tutto bisogna che in questo genere di miserabili esista una certa sorta di grandezza d'animo, dato che, decisi come sono alla morte, sopprimono se stessi, anziché cercare la morte nella pratica del delitto. E’ vero che, quanto più procede la nostra èra affaristica, tanto più rari diventano questi nobili suicidî del misero, sostituiti dalla cosciente ostilità, e il misero affronta disperato la sorte del furto e dell'omicidio. E’ più facile ottenere la pena di morte, che ottenere lavoro.
Frugando negli archivi della polizia ho trovato un unico caso evidente di vigliaccheria nella lista dei suicidi. Si trattava di un giovane americano, Wilfrid Ramsay, che si uccise per non dover affrontare un duello.
La classificazione delle diverse cause di suicidio sarebbe la classificazione dei mali stessi della nostra società.
Qualcuno si è ucciso per essere stato derubato da avventurieri di un'invenzione, per la quale l'inventore non era in grado di comprare un brevetto, perché ridotto alla più tremenda miseria dalle lunghe ricerche scientifiche che aveva dovuto affrontare.
Qualcun altro si è ucciso per sfuggire alle enormi spese e all'avvilente persecuzione che subisce chi si trova in imbarazzi finanziari, i quali del resto sono così frequenti, che gli uomini incaricati di curare gli interessi generali non se ne preoccupano minimamente.
Qualcuno ancora si è ucciso perché non riusciva a procurarsi lavoro, dopo aver gemuto a lungo sotto le offese e la grettezza di coloro che costituiscono fra noi gli incontrollati distributori del lavoro.
Un medico mi consultò un giorno a proposito di un caso di morte, di cui si accusava d'esser stato la causa.
Una sera, nel ritornare verso Belleville, dove abitava, mentre passava per una stretta via in fondo alla quale si trovava la sua porta, venne fermato da una donna velata, che lo pregò con voce tremante di ascoltarla. A una certa distanza un'altra persona, di cui egli non poteva distinguere i lineamenti, passeggiava su e giù. Essa era sorvegliata da un uomo.
-Signore, - ella disse, - io sono incinta e, se questo si scopre, sono disonorata. La mia famiglia, l'opinione del mondo, la gente onorata non mi perdoneranno. La signora di cui ho tradito la fiducia diventerebbe pazza e sicuramente si dividerebbe dal marito. Non cerco di scusarmi: mi trovo in mezzo a uno scandalo che soltanto la mia morte potrebbe evitare. Volevo uccidermi; si vuole che io viva. Mi si è detto che voi siete pietoso e questo mi ha dato la convinzione che non vorrete farvi complice dell'uccisione di un bambino, se anche questo bambino non è ancora al mondo. Vedete: si tratta di provocare un aborto. Non mi abbasserò a pregarvi, a scusare quanto mi appare come il più detestabile delitto. Nel presentarmi a voi ho soltanto seguito il desiderio di altri, poiché io saprò ben morire. Invoco la morte, e per questo non ho bisogno di nessuno. Si fa mostra di provar diletto ad innaffiare il giardino: si calzano perciò gli zoccoli, si sceglie un punto sdrucciolevole, dove si va ogni giorno ad attingere acqua, e si fa in modo di scomparire nella vasca; e la gente dirà che fu una “disgrazia”. Ho previsto tutto, signore. Volevo farlo ieri mattina, l'avrei fatto di tutto cuore. Tutto è pronto perché avvenga così. Mi hanno detto di dirvelo, e io ve lo dico. Sta a voi decidere se debba aver luogo un delitto oppure due. Perché si è strappato alla mia debolezza il giuramento che mi affiderò senza riserve alla vostra decisione. Decidete!
- Questa alternativa, - prosegui il medico, - mi fece inorridire. La voce di questa donna era pura e armoniosa; la mano che tenevo fra le mie fine e delicata; la sua aperta e ferma disperazione rivelava uno spirito superiore. Ma si trattava di un caso che mi faceva realmente tremare, sebbene in mille altri casi, in parti difficili per esempio, quando si pone al chirurgo il problema se salvare la madre o il figlio, la politica o l'umanità decida senza scrupoli secondo il proprio talento.
- Fuggite all'estero, - dissi. - Impossibile, - ella rispose: - non c'è nemmeno da pensarci.
- Prendete le precauzioni opportune!
- Non posso; dormo nella stessa camera della signora di cui ho tradito l'amicizia. - E vostra parente? - Non posso più rispondervi.
- Avrei dato il mio sangue, - proseguì il medico, - per salvare questa donna dal suicidio o dal delitto, o per fare in modo che ella potesse risolvere questo conflitto senza ricorrere a me. Mi accusai di crudeltà, perché indietreggiavo spaventato dal rendermi complice di un delitto. La lotta fu terribile. Poi un demone mi suggerì, che non ci si uccide solo per il fatto che si vorrebbe morire; che si costringe la gente compromessa a rinunciare ai suoi vizi, togliendole la forza di fare il male. Credetti indovinare il lusso nei merletti con cui giocavano le sue dita e le risorse della ricchezza nell'elegante dizione del suo discorso.
Si crede che i ricchi meritino minor compassione; il mio sentimento personale si ribellò al pensiero di una seduzione tacitata con l'oro, sebbene finora questo argomento non fosse stato toccato, il che era solo una delicatezza e la prova che si rispettava il mio carattere. Diedi una risposta negativa; la signora si allontanò svelta; il rumore di una carrozza mi persuase che non potevo più ritornare sulla mia decisione.
— Quindici giomi più tardi i giornali mi offrirono la soluzione del mistero. La giovane nipote di un banchiere parigino, in età di diciotto anni, la pupilla adorata della zia, che non l'aveva più lasciata dalla morte di sua madre, era scivolata in un ruscello nella tenuta del tutore a Villemoble ed era annegata. Il tutore era inconsolabile; nella sua qualità di zio, poteva, il vile seduttore, abbandonarsi al proprio dolore di fronte alla gente.
Si vede come, in mancanza di meglio, il suicidio costituisca l'estremo rifugio contro i mali della vita privata.
Fra le cause di suicidio ho trovato molto spesso la rimozione dagli impieghi, il rifiuto di lavoro, l'improvvisa diminuzione dei salari, motivi per i quali le famiglie non erano più in grado di provvedersi i mezzi di sussistenza, tanto più che la maggior parte di costoro vive del guadagno giornaliero.
All'epoca in cui il re ridusse i giardini del suo palazzo, un brav'uomo venne licenziato, come tutti gli altri, senza troppe cerimonie. L'età avanzata e la mancanza di protezioni non gli permisero di farsi assumere nell'esercito; l'industria era chiusa alla sua incapacità. Egli cercò di entrare nell'amministrazione civile; i concorrenti, troppo numerosi qui come dappertutto, glielo impedirono. Cadde in preda a una profonda tristezza e si uccise. In tasca gli si trovò una lettera di chiarimento sulla sua situazione. Sua moglie era una povera cucitrice; le due figlie, di sedici e di diciotto anni, lavoravano con lei. Tarnau, il nostro suicida, diceva nel suo ultimo scritto che, “poiché non poteva più essere di alcuna utilità alla famiglia e poiché era costretto a vivere a carico della moglie e delle figlie, aveva ritenuto suo dovere togliersi la vita per alleviarle di questo peso superfluo; egli raccomandava le figlie alla principessa d'Angoulême; confidava nella generosità della principessa perché tanta miseria trovasse compassione”.
Stesi un rapporto al prefetto di polizia Angles (8), la pratica fece il suo corso e la principessa fece rimettere 600 franchi alla sventurata famiglia Tarnau.
Misero aiuto senza dubbio dopo una simile perdita! Ma come potrebbe una sola famiglia soccorrere tutti i disgraziati, dato che, tutto considerato, l'intera Francia, com'è al presente, non riuscirebbe a nutrirli tutti! La carità dei ricchi non basterebbe a ciò, quand'anche tutta quanta la nostra nazione nutrisse sentimenti religiosi, mentre ne è ben lungi. Il suicidio elimina la parte più importante della difficoltà, il patibolo fa il resto. Solo da una riforma del nostro sistema generale di agricoltura e d'industria ci si può attendere fonti di reddito e ricchezza reale. Sulla pergamena è facile proclamare costituzioni, il diritto di ogni cittadino all'istruzione, al lavoro ed anzitutto ad un minimo di mezzi di sussistenza. Ma con lo scrivere questi grandiosi desideri sulla carta non si è fatto tutto: resta il compito intrinseco di fecondare queste idee liberali per mezzo di istituzioni concrete e intelligenti, per mezzo di istituzioni sociali.
Il mondo antico, il paganesimo, ha donato alla terra opere meravigliose; la libertà moderna sarà da meno del suo rivale?
Chi riuscirà a saldare insieme questi due nobili elementi della potenza?
Così Peuchet. (9)
Infine vogliamo riprodurre una delle sue tavole sui casi annuali di suicidio in Parigi.
Da un'altra delle tavole riportate da Peuchet risulta che dal 1817 al 1824 compreso, ebbero luogo in Parigi 2808 suicidî. Naturalmente il numero è in realtà assai più grande, in quanto degli ubriachi, i cui cadaveri vengono portati all'obitorio, solo in casi molto rari si riesce a sapere se si tratta di suicidi o no.

TAVOLA DEI SUICIDI AVVENUTI A PARIGI NELL'ANNO 1824
Primo semestre : 198
Secondo semestre: 173
Totale:   371

Di cui:
Sopravvissuti al tentativo di suicidio: 125
Non sopravvissuti: 246
Di sesso maschile: 239
Di sesso femminile: 132
Non sposati: 207
Sposati: 164

Genere di morte:
Grave caduta volontaria: 47
Strangolamento: 38
Per strumenti da taglio: 40
Per armi da fuoco:42
Per avvelenamento: 28
Per asfissia di gas di carbone: 61
Per annegamento volontario: 115

Motivo:
Pene d'amore, dissidi e dolori familiari: 71
Malattie, disgusto della vita, spirito depresso: 128
Cattiva condotta, giuoco d'azzardo, lotto,timore di rimproveri e punizioni: 53
Miseria, bisogno, perdita di impiego, licenziamento: 59
Motivi sconosciuti: 60

NOTE:

(1) - Marx antepone dunque recisamente gli scritti utopistici del francese Francois-Charles Fourier (1772-1835) a quelli dell'inglese Robert Owen (1771-1858).

(2) - Il titolo completo suona: Mémoires tirés des archives de la police de Paris, pour servir a l'histoire de la morale et de la police depuis Louis XIV jusqu’à nos jours. Par J. Peuchet, archiviste de la police, Paris, Alphonse Levavasseur, 1838, 6 volumi. Alle pp. I-XXI del vol. I l'editore premise una Introduction, dalla quale il Marx dedusse le notizie biografiche sul Peuchet sotto riferite.

(3) - André Morellet (1727-1819) di Lione, filosofo ed enciclopedista.

(4) - Jacques Mallet du Pan (1749-1800) di Ginevra, illustre pubblicista liberale e monarchico in Francia dalle colonne del “Mercure de France”, continuato dal '98 a Londra col «Mercure britannique ».

(5) - Nicolas dei François de Neufchâteau (1750-1828), lorenese di Saffais, letterato, agronomo e statista, fu ministro dell'Interno (1797-98) e presidente del Senate (1804-6).

(6) - Jacques Peuchet, nato net 1758 (non nel 1760 come Marx scrisse per errore) morì nel 1830.

(7) - Tutto il seguito dell'articolo, tranne la brevissima chiusa, non è che una  citazione riassuntiva dal cap. LVIII dei Mémoires di Peuchet, che s'intitola: “Del suicidio e delle sue cause” (ediz. cit., vol. IV, pp. 116-182; in particolare le pp. 116-l42, 159, 167, 169-176).

(8) - Il conte Jules Angles (1778-1828), prefetto di polizia a Parigi.

(9) - Termina qui la libera versione dei Mémoires. Le tabelle qui citate si leggono nel vol. IV dell'edizione originale alle pp. 179-180.


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