La Manon Lescaut diretta da Riccardo Muti, nonostante gli annunciati scioperi, è stata rappresentata, offrendo una speranza all’incerto futuro del teatro
La Manon Lescaut, nonostante lo sciopero annunciato dalle sigle sindacali CGIL, Cisal, Libersind e Confal, lo scorso 27 febbraio ha avuto la sua prima al Teatro dell’Opera di Roma, alla presenza del presidente Giorgio Napolitano, del ministro della cultura Dario Franceschini, e del sindaco di Roma Ignazio Marino.
Il maestro Riccardo Muti ha intonato l’inno di Mameli, e alla fine dello spettacolo il soprano russo Anna Netrebko, che interpretava la sfortunata Manon, ha avuto dieci minuti di applausi. Grande soddisfazione anche per Chiara Muti, figlia del direttore d’orchestra, che ha curato la regia, nonché per il tenore azerbaigiano Yusif Eyvazov, che interpretava il romantico studente Des Grieux.
La rappresentazione si è avvalsa di tradizionali ed eleganti costumi d’epoca, e notevole impatto a livello scenografico è stato offerto dal deserto, sul quale la protagonista muore stremata alla fine dell’opera, fra le braccia del suo amato Des Grieux. Per comprendere meglio il significato di quest’opera (che aveva l’ambizione di ‘sfidare‘ la precendente versione francese di Jules Massenet) bisogna considerare alcune circostanze biografiche che riguardano lo stesso Puccini. Nel 1893, quando l’opera venne rappresentata per la prima volta al Teatro Regio di Torino, il compositore non aveva ancora acquistato la sua residenza a Torre del Lago (il che avverrà solo nel 1898) e la sua antica casa di famiglia a Lucca, dopo la morte del padre, era stata venduta, salvo una clausola che ne permise il riscatto molto tempo dopo.
Eppur lieta, assai lieta / un tempo io fui! La quieta / casetta risonava/ di mie folli risate, / e colle amiche gioconde ne andava/ gioconda a danza! / Ma di gaiezza il bel tempo fuggì! (Atto I)
Manon è consapevole della sua attuale condizione e sa bene che non sarà un conveniente compromesso a darle l’amore e la felicità:
Una fanciulla povera son io, / non ho sul volto luce di beltà, / regna tristezza sul destino mio… (Atto I)
È il fratello della ragazza, denominato semplicemente Lescaut, che diventa la sua cattiva coscienza, esorcizzando i suoi rimorsi:
T’ho ritrovata! una casetta angusta / era la tua dimora: possedevi / baci e…niente scudi! (atto II)
Tuttavia, la Manon che abita in un ‘palazzo aurato‘, sente nell’anima un freddo che ‘agghiaccia‘, e rimpiange la stentata vita con Des Grieux:
O mia dimora umile,/ tu mi ritorni innanzi/ gaia, isolata,bianca / come un sogno gentile/ e di pace e d’amor! (atto II)
E infine, la ‘capricciosa’ Manon morirà, paradossalmente, in una landa deserta, senza un ‘casolar‘ che, al calar della notte, possa accoglierla e rifocillarla:
Ah, tutto è finito; / asil di pace ora la tomba invoco… (Atto IV)
Per comprendere meglio il rammarico che comporterebbe un’eventuale chiusura del Teatro dell’Opera di Roma, penso che sia opportuno ripercorrere brevemente la sua storia. Questo teatro è anche detto Costanzi, poiché si chiamava Domenico Costanzi l’imprenditore che, nel 1874, acquistò da monsignor Francesco Saverio de Merode un terreno per portare avanti un piano di urbanizzazione che si estendeva nei pressi della futura stazione Termini, all’epoca in fase di costruzione. Su questo terreno venne edificato sia l’Hotel Quirinale, situato in Via Nazionale, e che lo stesso Teatro dell’Opera. Le due costruzioni, purché dissimili, erano collegate da un passaggio sotterraneo, che garantiva la riservatezza degli artisti. Il teatro venne progettato dall’architetto Achille Sfondrini, in stile neo-rinascimentale, ed inaugurato con la Semiramide di Rossini, che venne rappresentata il 27 novembre 1880, alla presenza del Re Umberto I di Savoia e della Regina Margherita di Savoia.
Nel 1926 il comune di Roma acquistò il Teatro dell’Opera, primo e tuttora unico della capitale, e incaricò l’architetto Marcello Piacentini ad apportare delle modifiche al progetto originario (come il rifacimento dei prospetti esterni e l’aumento dell’ordine dei palchi) nonché a far installare sulla cupola, dipinta da Andrea Brugnoli, un lampadario di cristallo di Boemia che, con i suoi sei metri di diametro, è ritenuto il più grande al mondo. L’ingresso principale venne poi spostato da via Firenze a via del Viminale, e la prima rappresentazione che, in questa nuova veste, vi si svolse fu nel 1928 il Nerone di Arrigo Boito.
Nel 1930 venne allestito un organo a canne con tastiera a pedaliera (nascosto sulla destra del palcoscenico) grazie alla ditta Buccolini, la stessa che lo ha restaurato nel 2004. Con l’avvento della Repubblica, il teatro perse l’appellativo ‘reale‘, e nel 1956 il Piacentini iniziò un nuovo progetto, in base al quale nel giro di quattro anni il teatro (che attualmente ha una capienza di 2200 posti) ebbe uno scalone d’onore, un foyer dei palchi, alcuni locali destinati all’amministrazione e anche un rifacimento della facciata in stile novecentesco.
Il Teatro dell’Opera vanta anche una scuola di danza e un suo corpo di ballo, e nei mesi estivi le rappresentazioni avvengono all’aperto, nel complesso archeologico delle Terme di Caracalla. Questa ultima iniziativa venne interrotta solo durante la seconda guerra mondiale e dal 1993 al 2003, per consentire un’ importante ristrutturazione delle Mura Romane.