Di tanto in tanto rileggo i classici. Credo sia proprio la rilettura a renderli tali.
Prediligo soprattutto i racconti, perché in grado di donare un paio d'ore di benessere, non di più. Da riscoprire, negli anni, attraverso il sapiente uso della punteggiatura, del simbolismo, messi a confronto con le paranoie che, di solito, hanno segnato la vita dei rispettivi autori.
Sono così tanti, i disagi degli autori che, a un certo punto, sembrano essere condicio sine qua non alla buona letteratura.
La Maschera della Morte Rossa (1842) di Edgar Allan Poe è sempre stato tra i miei preferiti. Ho adorato e adoro in special modo la frase di chiusura, quel
E il Buio, il Disfacimento e la Morte Rossa dominarono indisturbati su tutto
Che è una frase di una potenza devastante.
Racchiude in una sola, compiuta proposizione il senso di impotenza e di malinconia che circa centoventi anni più tardi avremmo ammirato, su un media diverso, stavolta al cinema, osservando quel disfacimento della carne ne La Notte dei Morti Viventi.
La Maschera della Morte Rossa (The Masque of the Red Death), per la sua stessa struttura - sette stanze di colori diversi, dov'è ambientata una festa decadente sia per ciò che sottende alle intenzioni, passare lieti il tempo nascondendosi dal contagio che infuria all'esterno, al tempo aspettando l'ineluttabile, e agli stessi partecipanti, figure emotivamente devastate che si lasciano esistere ingannandosi con le gioie terrene - è stata oggetto di svariate interpretazioni allegoriche.
A ciò si aggiunge l'ultima stanza, nera con finestre rosse, talmente cupa da impaurire gli ospiti e servire loro da monito, che ospita un orologio dai rintocchi maligni, che sembra, nell'allegoria, andare a costituire il memento mori e per i partecipanti alla festa e per il lettore.
Orologio, piaga che flagella il mondo esterno, nobili asserragliati in un castello, isolati, che vivono un'esistenza oppiacea, febbrile. Ogni elemento urla allegoria, metafora dell'umana natura.
Ma c'è il contraltare, ovvero che Poe stesso non amava molto il simbolismo. Quindi è plausibile, leggendo La Maschera della Morte Rossa, considerare i suoi elementi caratterizzanti come letterali.
Se così fosse, avremmo, in nuce, una prima rappresentazione di letteratura pandemica. Attenzione, non prima in senso assoluto. Se dobbiamo andare indietro nel tempo, tra i tanti esempi, consideriamo il più noto, quei dieci giovani che si chiudono in una villa aspettando la fine della pestilenza raccontandosi dieci novelle ciascuno...
Consideriamo la moglie di Poe, affetta da tubercolosi all'epoca della stesura del testo. Consideriamo la paranoia derivante sia dalla contingenza, che andava a colpire gli affetti personali, sia dalla paura che la morte rossa, un morbo che al suo culmine faceva spruzzare sangue dai pori, dilagasse cancellando la società. In questa angoscia moderna, molto più moderna degli incubi non morti del Novecento, dove una patina religiosa viene in ogni caso adoperata per metabolizzare il contagio, che diventa castigo divino, la malattia è intesa come fine assoluta.
Non sembra esserci un dopo, nella breve ma compiuta mitologia della Morte Rossa. La fine che arriva con la figura incappucciata che percorre le sette sale per arrivare alla nera e sancire il termine di ogni cosa è ineluttabile, tanto che istantaneamente, non bastasse il senso di futilità che è proprio della gioia artificiale dei festanti e dello stesso Prospero, s'avverte non il chiudersi di un'era che aspetta la rinascita, ma puro nichilismo, che sottrae significato all'uomo stesso, alla sua cultura, ai suoi sogni e alle speranze. Tutto è sciocco, di fronte alla Morte Rossa, vano. Non ha mai avuto senso, se non quello che noi abbiamo inteso attribuire.
Pare essere un'ode all'illusorietà della condizione umana, che ci viene mostrata attraverso il veicolo di un ignoto contagio biologico.
Di fronte a una malattia incurabile, siamo solo piccoli pezzi di carne destinati al rapido disfacimento e al buio.
E nient'altro.
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La maschera della morte rossa