27 gennaio 2014 di Dino Licci
La meccanica quantistica e Dio
Alla fine dell’ottocento la scienza e la tecnologia avevano raggiunto i vertici della loro popolarità. Erano stati già scoperti il microscopio e il telescopio di cui si era servito Galileo per le sue straordinarie osservazioni cosmiche, Torricelli aveva inventato il barometro, Harwey aveva scoperto la circolazione del sangue, Leeuwenhoek gli spermatozoi e molti esseri unicellulari. Poi arrivarono le leggi di Newton e le equazioni di Maxwell, i raggi X, la radioattività, la scoperta dall’elettrone. Insomma sembrava che non fosse rimasto niente altro da scoprire e il mondo meccanicistico pensava di poter predire qualsiasi fenomeno naturale. Ma l’alba del XX secolo aveva in serbo una sorpresa tale, che l’entusiasmo positivista di colpo cessò e la Scienza ridimensionò la potenzialità delle sue scoperte quando si accorse, con la meccanica quantistica, che le leggi di Newton non erano applicabili agli oggetti troppo piccoli e, con la relatività di Einstein, che non erano applicabili agli oggetti molto veloci.
Il termine quantistica lo si deve a Planck quando questo scienziato, premio Nobel per la fisica nel 1918, scoprì che l’energia termica, quella che va sotto il nome di “radiazione del corpo nero” non si propaga uniformemente ma in particelle discrete. Prima di Planck si supponeva che questa emissione avvenisse in modo continuo trattandosi di onde energetiche, ma non si riusciva in alcun modo ad esprimerla in termini matematici tali che rispettassero anche le regole trovate sperimentalmente. A Planck venne quindi l’idea che l’emissione di onde elettromagnetiche fossero emesse in particelle discrete che lui chiamò quanti e che la quantità di energia contenuta in ogni “pacchetto energetico” dipendesse dalla sua frequenza. Questa sua intuizione funzionò egregiamente tanto che si arrivò a condensare in una formula matematica tutte le leggi del fenomeno con assoluta precisione. Plank scoprì in modo geniale quella semplice, importante formula che ci dice che la dimensione E di un quanto di energia dipende dalla frequenza ν della radiazione secondo la formula E=hv dove h è una costante, detta appunto costante di Planck. Per capire meglio il fenomeno pensiamo al cambiamento di colore che subisce un pezzo di ferro quando esso viene riscaldato. Prima emetterà una radiazione che noi non riusciamo a vedere ma solo a percepire come calore perché emetterà raggi infrarossi che hanno una lunghezza d’onda superiore a 700 nanometri ( ricordiamo che lo spettro del visibile dell’occhio umano approssimativamente va da 400 a 700 nanometri), poi diventerà rosso spento cioè avrà una lunghezza d’onda minore di 700 nanometri e quindi riusciremo a vederla. Diminuendo la lunghezza d’onda la radiazione aumenterà la sua frequenza e così, continuando a riscaldare il ferro, esso diventerà rosso vivo, poi arancione, poi giallo, quindi bianco e bluastro.
Insomma la differenza di colore dipenderà dalla frequenza delle emissioni elettromagnetiche (Maxwell aveva già unificato elettricità e magnetismo), frequenza che aumenterà andando dall’infrarosso all’ultravioletto.
Un pacchetto di energia, un quanto di luce ultravioletta, conterrà molta più energia di un quanto di luce infrarossa insomma. E questa scoperta interessò molto lo stesso Einstein che contribuì moltissimo a spiegare il fenomeno con i suoi studi sull’effetto fotoelettrico che gli valsero il premio nobel per la fisica nel 1921. Egli elaborò ancor più la teoria dei quanti che lui chiamò fotoni ritenendo che la luce non solo veniva emessa in pacchetti ma che viaggiasse in pacchetti ritornando così a considerare la luce come composta di particelle e riesumando, per così dire, la vecchia teoria di Newton. Maxwell aveva però dimostrato che la luce era elettromagnetismo e che quindi si propagava come un’onda. Vedremo che entrambe le teorie sono giuste comportandosi la luce a volte come un’onda, altre come una particella.
Ma vediamo in che cosa consiste l’effetto fotoelettrico: Se un fascio di luce viene in collisione con un metallo, esso emetterà energia sotto forma di elettroni in quantità pari all’energia ceduta dai fotoni diminuita del costo di estrazione degli elettroni dal metallo. Per capire il concetto, basti pensare ad una palla da biliardo che si ferma incontrandone un’altra cui cederà la sua energia. Se colpiremo la lastra di metallo con luce infrarossa il fenomeno non si verificherà neanche se aumenteremo l’intensità, mentre esso si verificherà se la “bombarderemo” con fasci di luce ultravioletta, che ha frequenza maggiore.
La luce, insomma, si comportava come se fosse composta da particelle come aveva enunciato Newton. Ma Maxwell al contrario aveva dimostrato la teoria ondulatoria della luce e molti esperimenti confermavano la validità della sua teoria. Infatti, se un raggio di luce passa attraverso un forellino rotondo e molto piccolo, essa proietterà su uno schermo tanti anelli concentrici alternativamente chiari e scuri fenomeno chiamato “diffrazione” e paragonabile al comportamento delle onde del mare che attraversino la stretta apertura di un porto. Se invece del foro di uno spillo si useranno due fessure simili, poste una accanto all’altra, la figura di diffrazione assumerà l’aspetto di una serie di strisce parallele. E come due sistemi d’onda incontrandosi in uno specchio d’acqua, si sommano e si rinforzano quando la cresta di un’onda coincide con la cresta dell’altra e si annullano a vicenda quando il colmo di un’onda incontra il ventre dell’altra, cosi, nel caso della doppia fessura, le strisce luminose si formano quando due onde luminose si rinforzano a vicenda e le strisce oscure quando le due onde interferiscono annullandosi.
Per quanto queste singolari scoperte avessero aperto la via ad ulteriori studi che ne confermarono la validità, Planck si rifiutava di accertarle come entità reali e lo stesso Eistein rimaneva perplesso rispetto alla doppia natura, corpuscolare e ondulatoria della luce. Eppure proprio la sua famosa formula, E = mc2, stabilendo un’equivalenza tra massa ed energia, forniva un valido supporto a questa apparente contraddizione.
I fotoni, pur rivelandosi in via sperimentale entità reali e quindi misurabili, parevano essere dotati di una doppia natura ondulatoria e corpuscolare comportandosi a volte come onde, a volte come particelle, a seconda degli esperimenti cui venivano sottoposti. Se in un evento scompariva parte della massa, da qualche altra parte doveva comparire l’energia equivalente e viceversa. La luce era insomma composta da “ondicelle”, come si espresse uno scienziato dotato del senso dell’humor. La meccanica quantistica dette la stura a numerosi altri studi sull’infinitamente piccolo che coinvolse scienziati famosi come Bohr, Pauli, Heisenberg, Born, Schrödinger, de Broglie, Rutherford, Dirac, così che finalmente si conobbe la vera struttura dell’atomo con le sue leggi e si passò dapprima dalla meccanica quantistica alla meccanica delle matrici, da questa alla meccanica quantistica relativistica e quindi all’elettrodinamica quantistica con la relativa scoperta dei positroni e quindi dell’antimateria.
Intanto Heisenberg aveva formulato il “principio d’indeterminazione” secondo il quale non possiamo conoscere contemporaneamente la posizione di una particella e la sua velocità. Infatti, se investiamo una particella con un fascio di luce, questa, a causa dell’effetto fotoelettrico, varierà la sua velocità o la sua posizione a seconda della frequenza del raggio di luce con cui l’avremo investita.
La conseguenza di questa legge è evidente e sconcertante se si considera che la realtà viene, in un cero senso, creata dall’osservatore, dato che essa muta a seconda del metodo usato per osservarla.
La scienza cominciava a perdere sicurezza nell’oggettività della natura, mentre cominciava a prendere piede l’importanza dell’osservatore per la sua definizione.
Insomma, nel mondo submicroscopico, molecolare, atomico e sub atonico, le leggi della meccanica classica non funzionavano più e quelli che eravamo abituati a considerare oggetti solidi e stabili diventano per incanto fenomeni solo probabilistici, che, soltanto nel momento in cui vengono misurati, acquistano una dimensione reale, mentre prima di questo momento, esistono ma in uno stato probabilistico, astratto e indefinito e suscettibile di varie soluzioni. Per dirla col linguaggio della quantistica, uno “Stato”collassa, solo mentre lo misuriamo, in uno dei tanti stati probabilistici.
Un altro importante fenomeno che deriva dall’evoluzione della quantistica è l’entanglement quantistico, temine introdotto da Erwin Schrodinger, secondo il quale, con la meccanica quantistica, è possibile realizzare un insieme costituito da due particelle e tale che, qualunque sia il valore di una certa proprietà di una delle due, questo influenzerà istantaneamente il corrispondente valore dell’altra, che dovrà necessariamente essere uguale e opposto al primo, anche nel caso che le due particelle si trovino distanziate, senza alcun limite spaziale. Praticamente, se due o più particelle hanno interagito per un certo periodo di tempo, esse continueranno ad influenzarsi a vicenda e istantaneamente qualunque sia la distanza che le separi, anche milioni di miliardi di km. Questo fenomeno, che Einstein definì inquietante, cozza con la teoria della relatività che nega la possibilità che una particella possa essere più veloce della luce. Eppure si sta lavorando ai computer quantistici perché l’esperienza sembra proprio confermare i dati teorici ( vedi esperimento di Bell degli anni ‘70).
Ne deriva che il mondo descritto dalla quantistica non è un insieme di cose separate ma una gigantesca rete laddove ogni elemento è inestricabilmente connesso a tutti gli altri, quali che siano le distanze esistenti fra di essi. Insomma, per usare un linguaggio filosofico quelle monadi che Leibniz riteneva senza finestre, invece comunicherebbero tra loro anche se in un modo tanto incomprensibile ai nostri sensi da far dire al fisico Bohn che:
“esiste un ordine implicito, nascosto nella profondità del cielo. Tutto ciò che noi crediamo sullo spazio e il tempo, tutto ciò che immaginiamo a proposito della località degli oggetti e della causalità degli avvenimenti, ciò che possiamo pensare del carattere separabile delle cose che esistono nell’universo, non è altro che un’immensa e perpetua allucinazione che ricopre la realtà con un velo opaco. Sotto questo velo esiste una realtà strana e profonda, una realtà che non sarebbe fatta di materia ma di spirito, un vasto pensiero che dopo mezzo secolo di tentativi la nuova fisica comincia a comprendere”
La realtà fenomenica descritta dalla teoria quantistica, ci descrive un mondo molto simile a quello dei sofisticati computers prodotti dalla tecnologia cibernetica più avanzata, laddove l’operatore può interagire con la macchina in modo tale da avere l’impressione di muoversi in un ambiente reale senza che questo esista veramente (realtà virtuale). Ancora mi viene in mente Leibniz con la sua “Armonia prestabilita”. L’intero Universo ha tali sorprendenti analogie con la realtà virtuale, da potersi ritenere che esista una mente pensante che ha programmato il tutto, lasciando quella parte di libero arbitrio alle creature viventi in accordo con la quantistica che prevede che un fenomeno sia assoggettato alle scelte dell’osservatore.
Come nella “realtà virtuale” esiste un software, ossia un’espressione matematica generata da un intelligente operatore, così nella realtà fenomenica descritta dalla meccanica quantistica, esistono espressioni, equazioni matematiche che potrebbero essere state programmate da una mente organizzatrice che eleva il Numero alla dignità di Logos fondendo spirito e materia in un inscindibile connubio vitale!
Negli intendimenti di Pitagora vissuto migliaia di anni fa, già il numero non è semplicemente tale ma un punto, uno spazio che si materializza in una realtà concreta che matematicamente e geometricamente si organizza dal più semplice al più complesso, una trama numerica attraverso la quale L’Essere si manifesta rendendosi “visibile” quando “collassa” ad opera di chi la osserva.
Più attuale ma capace di permeare di spiritualità le recenti scoperte della fisica, il pensiero di Gregg Braden, scienziato, geologo e autore di un saggio “La Matrix divina” che c’introduce ad una nuova disciplina tale da integrare o forse capovolgere tutte le nostre conoscenze tradizionali.
Egli ci racconta che recenti studi confermati da immagini scattate dalla sonda “Chandia” messa in orbita dalla Nasa, provano che il vuoto non esiste come si è sempre creduto, ma che siamo invece circondati da un campo energetico che avvolge anche tutto ciò che ci circonda e che i nostri corpi altro non sarebbero che la materializzazione di questo campo secondo la sempre presente formula di Einstein che mette in relazione materia ed energia. Il nostro cervello sarebbe un’ antenna capace di captare i segnali provenienti dal campo stesso ( inconscio collettivo) ed il linguaggio con cui ci è possibile comunicare con esso, sarebbe costituito dalle nostre stesse emozioni.
Da semplici osservatori passivi dei fenomeni naturali, noi diventeremmo parte attiva della realtà fenomenica universale e questa convinzione sarebbe in perfetta sintonia con l’entanglement quantistico già descritto, essendo noi costituiti da una struttura complessa ma composta, nelle sua più intima essenza, da atomi che devono sottostare appunto alle leggi della quantistica. E questa disciplina c’insegna che gli elettroni che ruotano intorno al nucleo atomico non sono semplici particelle ma onde vive che possono stare in più posti contemporaneamente pur rimanendo connesse tra di loro!!! Possono essere presenti nel presente e nel passato e, come abbiamo visto, se una di esse subisce delle modificazioni, le altre seguiranno lo stesso cambiamento istantaneamente.
Ma a convincerci di questa nostra interazione col resto dell’Universo e della nostra capacità di modificare gli eventi, interviene un esperimento condotto dal russo Poponiam, il quale condusse degli studi molto interessanti sulle capacità del nostro DNA. L’acido desossiribonucleico, come si sa, è costituito da una sequenza di basi azotate (Timina, Guanina, Adenina, Citosina), tenute insieme da uno zucchero, il desossiribosio e dall’acido orto fosforico. Lo scienziato russo inserì in un tubo di vetro nel quale era stato creato il vuoto, dei frammenti di DNA umano e verificò che i fotoni rimasti nel vuoto, che è sempre relativo, da una posizione disordinata e casuale si allinearono in modo speculare rispetto all’ellisse del DNA e rimasero in questa posizione anche quando i frammenti dell’acido furono rimossi. Ciò significa che il DNA umano è capace di modificare la realtà circostante. Ora complessi studi condotti nel 1993 hanno dimostrato che le nostre emozioni possono modificare la stessa struttura del DNA, il quale contrae la sua ellisse quando venga investito da emozioni negative quali la paura o la rabbia e lo distende in presenza di stimoli positivi come l’amore e la compassione.
Se le nostre emozioni riescono a modificare la struttura del DNA e quest’ultimo, come abbiamo appena visto, è in grado di modificare la realtà esterna, ne deriva che le nostre emozioni riescono a modificare gli eventi in accordo con quanto già predicavano in modo empirico, le antiche religioni orientali che ancora si basano sulla meditazione e sulla forza del pensiero.
Insomma, riprendendo il discorso iniziale sull’entusiasmo positivista, dobbiamo sapere che siamo ancora lontani dal conoscere la Verità assoluta ed è inutile lasciarsi andare a facili entusiasmi perché, seppure passi enormi sono stati fatti, il mistero ancora incombe su di noi, prodotti di un disegno divino o comunque trascendente la cui natura ancora ci sfugge ma affratellati oltre ogni dire in una rete comune, che ci ricorda il brodo primordiale da cui tutti proveniamo e che non ci ha mai abbandonati anche se, alla luce delle moderne conoscenze, dobbiamo cambiargli nome per elevarlo consapevolmente alla dignità di “Matrix Divina”. Dino Licci